L’Alpinismo? È la libertà di sbagliare

“Un bivacco imprevisto nella notte gelata: la vita non mi ha mai più donato un sapore così buono”. E dopo il ritorno da Auschwitz l’autore di “Se questo è un uomo” cerca una verifica in montagna da solo: “volevo dimostrare a me stesso che ero ancora capace”.

La cordata Delmastro-Levi nel 1940 all'Uia di Mondrone

La cordata Delmastro-Levi nel 1940 all’Uia di Mondrone

Incontro con Primo Levi

di Alberto Papuzzi

La salita alla Torre del Gran San Pietro per la cresta sud ovest prevede una variante, tuttora citata nella Guida del Gran Paradiso di Andreis, Chabod, Santi: la variante percorsa da Alessandro Delmastro, con la sorella Gabriella, l’11 luglio 1938. Delmastro è quel Sandro al quale Primo Levi ha dedicato il capitolo del ferro nel suo libro Il sistema periodico.

«Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappotto. Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole». Sandro, racconta Levi, sembrava fatto di ferro, ed è con lui che ha vissuto le più belle avventure di montagna e di arrampicata. Allora Primo Levi era uno studente di chimica, che il sabato e la domenica sgambava sulle cime del Gran Paradiso, d’inverno s’inzuppava di neve con gli sci, e nelle mezze stagioni si cimentava con le rocce dei Picchi del Pagliaio, dei Denti di Cumiana, di Rocca Patanüa, del Plü e della Sbarüa, palestre torinesi alcune diventate  classiche altre ormai dimenticate, a quel tempo frequentate da pochi  coraggiosi o stravaganti, in calzoni alla zuava e vecchi scarponi.

1935, Bardonecchia - Colle del Sommelier

1935, Bardonecchia – Colle del Sommelier

Allora… Oggi  Primo Levi è uno scrittore famoso in tutto il mondo, e tra le bianche pareti di una stanza della casa editrice Einaudi (che ha pubblicato tutti i suoi libri) ci guarda con un  sorriso gentile appena sfiorato dall’ironia, poiché certo é un poco meravigliato di essere intervistato, per la prima volta, sulle sue esperienze  e imprese alpinistiche, che non hanno alcunché di straordinario se non di essere parte della sua storia: della storia d’un uomo.

«Ho cominciato ad andare in montagna a 13, 14 anni – racconta Levi. Nella mia famiglia c’era la tradizione della montagna che fortifica, un po’ l’ambiente che Natalia Ginzburg descrive in Lessico famigliare. Non l’alpinismo propriamente detto, non le  scalate … Si andava in montagna così, per il contatto con la natura… ».  Gli capitò subito, dalla prima volta,  una «negrigura», come avrebbe detto un altro Levi, appunto il padre di Natalia  Ginzburg.

«Ero a Bardonecchia e avevamo deciso  di fare un giro, io che avevo 14 anni, un mio coetaneo e un altro ragazzo che avendone sedici di anni si era  autonomi nato guida. L’idea era di arrivare  in Valle Stretta per la Catena  dei Magi. Solo che partimmo di pomeriggio, senza mangiare, senza zaini.  Arrivammo in cima che ormai faceva  quasi buio; si vedeva sotto una  discesa infida, e in fondo il lumino di  un rifugio, non ricordo più il nome. Ci mettemmo a gridare, e venne su una  squadra di alpinisti. Gridarono giù:  son solo dei gagno brodos … Poi ci legarono come salami e ci calarono di  notte, alla luce delle lanterne».

Le prime arrampicate verso i 18, 19  anni , per un desiderio di avventura ma anche di indipendenza, per provarcisi  , per fare da sé: «Volevo andare  in montagna sul serio, ma non con  la guida». Un desiderio che si combinava  col clima di allora, che era il clima  del regime fascista, e per Levi, ebreo, delle leggi razziali.

Che cosa significava, dunque, andare ad arrampicare e andarci da solo, per quel giovane ebreo della Torino fine  Anni ’30?  «Era una forma assurda di ribellione  – risponde Levi – Tu, fascista, mi  discrimini, mi isoli , dici che sono uno  che vale di meno, inferiore, unterer:  ebbene, io ti dimostro che non è così.  Mi ero subito promosso capocordata,  senza esperienza, senza scuola: devo dire che l’imprudenza faceva parte del gioco.

La prima volta, da solo, fu all ‘Herbetet, per la cresta est. Neppure  col CAI avevamo rapporti , nel nostro gruppo. Era un’istituzione fascista e noi eravamo antistituzionali: la  montagna rappresentava proprio la  libertà, una finestrella di libertà. Forse  c’era anche, oscuramente, un  bisogno di prepararsi agli eventi futuri  ».

Questo del prepararsi , dice Levi, era  chiarissimo in Sandro Delmastro. La sua era la montagna ruvida e proletaria.  Era di famiglia antifascista, con  un retroterra ideologico, mentre Levi  era un bravo ragazzo borghese. Su  ome sarebbe finita – cioè «a  botte», per dirla con Levi – Delmastro  non aveva dubbi. Gli ebrei borghesi,  invece, si rifiutavano di guardare  l’avvenire, prigionieri di un pacifismo  pigro, anche pauroso.  Delmastro diventa la proiezione a posteriori  delle tensioni e degli ideali  che allora Levi sentiva solo confusamente  e che oggi invece vede con  una lucidità astratta. E l’alpinismo di  Delmastro, rivisto adesso, come in  una muta sequenza al rallentatore, è  la metafora viva di quella rappresentazione,  con quel suo rifiuto delle comodità,  delle mode, del consumismo,  col suo essere «d’altri tempi già allora  »

«Al Sestriere non s’andava mai, perché  c’erano le funivie, e le funivie erano  peggio del demonio! Niente giacche imbottite,  niente scarpe nuove, la  guida del CAI serviva solo per fare  l’opposto di quanto consigliava. Anche  l’attrezzatura era minima: mia sorella  mi aveva regalato un martello,  un paio di moschettoni e tre chiodi.  Questa era tutta la mia attrezzatura.  Bisognava invece arrivare sempre al  limite delle nostre forze, sia fisiche  sia tecniche. Ricordo una Pasqua,  quando Daladier aveva risposto jamais  a Mussolini. Voleva dire la guerra,  ma noi non ci pensavamo. Partii  con Delmastro e con Alberto Salmoni, a piedi di notte da Bard a Champorcher: il giorno dopo, con gli sci, e  con 30 chili a testa negli zaini , dovevamo  traversare fino alla cosiddetta  Finestra di Champorcher, poi scendere,  risalire la Valleille, raggiungere  Piantonetto, puntare sul Gran Paradiso… Era un ‘idea di Delmastro, il quale  più si faticava più era soddisfatto. Io rinunciai già a Cogne».

Era l’ideologia alpinistica di Lammer:  lo sprezzo euforico del pericolo, la  montagna come sofferenza. «Sì,  anch’io avevo letto Lammer – dice  Levi – Fontana di giovinezza, e anche  Whymper e Mummery. Attraverso  quelle pagine era pervenuta fino a noi  l’idea di misurarsi sempre con l’estremo  e che essenziale è fare sempre il  massimo».  Tuttavia, l’ideologia romantica conviveva con l’ideologia positivista. Le ragioni di Levi, ma anche di Delmastro, rispetto alla montagna, erano l’una e  l’altra cosa insieme. Il romanticismo  lammeriano era contaminato da un  gusto laico per la montagna come  oggetto scientifico, come luogo dove  cercare di ravvisare il mondo alle sue  origini. Sia Levi sia Delmastro avevano  la passione della chimica.  «Pensavo di trovare nella chimica –  dice Levi – la risposta agli interrogativi  che la filosofia lascia irrisolti.  Cercavo un’immagine del mondo piuttosto  che un mestiere. Ora, la passione  della montagna era complice della  passione per la chimica, nel senso di  ritrovare in montagna gli elementi del  sistema periodico, incastrati tra le  rocce, incapsulati tra i ghiacci, e cercare  di decifrare attraverso essi la  natura della montagna, la sua struttura,  il perché della forma di un canalino,  la storia dell ‘architettura di un  seracco. Una volta, ai Picchi del Pagliaio,  Sandro si attacca a un appiglio  cristallino che però gli rimane  nelle mani. Me lo fa vedere senza  scomporsi, dicendomi: si sfalda secondo  001, che è la terminologia delle  operazioni stereografiche, poiché i  cristalli si identificano dal loro modo  di sfaldarsi.

Sulla vetta del Disgrazia, 1942

Sulla vetta del Disgrazia, 1942

Per cui la montagna per  noi era anche esplorazione, il surrogato  dei viaggi che non si potevano  fare alla scoperta del mondo, e di noi  stessi ; i viaggi raccontati nelle nostre  letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi era l’ Herbetet».

In montagna, Primo Levi ha continuato  ad andare anche dopo la guerra, dopo il ritorno da Auschwitz, dopo  aver scritto quel libro che è la più alta testimonianza letteraria della condizione umana di fronte alla violenza di  uno sterminio di massa, Se questo è  un uomo. Andava a camminare, o con  gli sci ; non più ad arrampicare, salvo  una volta che ha affrontato alcuni  passaggi di terzo, da solo, su un versante  della Testa Grigia, sopra Gressoney: «Volevo dimostrare a me stesso  che ero ancora capace, anche se  avevo ormai più di quarant’anni».

Ma le radici del suo rapporto con la montagna sono ben piantate in quella  stagione più lontana: radici intellettuali di cittadino che cercava sulla montagna, nella montagna, suggestioni  e risposte che non trovava nella  vita, o meglio nell ‘atmosfera ispessita  di quella vita torinese, senza passato  e senza futuro. Con le generazioni  precedenti, i Monti, i Mila, i Foa, non c’erano rapporti, come fosse caduto  un netto colpo di falce, mentre  l’avvenire era vestito dell’impenetrabile conformismo delle adunate oceaniche  e del mito della razza.  «Avevo anche provato a quel tempo a  scrivere un racconto di montagna» ricorda  ora Primo Levi, con una punta  di divertimento. «Non l’ho mai finito,  è rimasto inedito e tale resterà, perché  tutto sommato è proprio molto brutto. C’era tutta l’epica della montagna, e la metafisica dell ‘alpinismo. La montagna come chiave di tutto. Volevo rappresentare la sensazione  che si prova quando si sale avendo di  fronte la linea della montagna che  chiude l’orizzonte: tu sali , non vedi  che questa linea, non vedi altro, poi  improvvisamente la valichi , ti trovi dall’altra parte, e in pochi secondi vedi un mondo nuovo, sei in un mondo nuovo. Ecco, avevo cercato di esprimere questo: il valico. Poi avevo letto il racconto ai miei amici: valeva poco». Dopo 1’8 settembre 1943, il suo valico  Primo Levi andò a cercarlo di nuovo  in montagna, e non si trattava questa volta di metafisica, ma di schierarsi e  di battersi. Come si usa, fu catturato  quasi subito e rinchiuso in campo di  concentramento. Il suo amico e compagno di cordata, Sandro Delmastro, fu il primo caduto del Comando militare  piemontese del Partito d’azione, a Cuneo.

Una delle più belle avventure  insieme era stato un bivacco in  quota, in pieno inverno, con i piedi  nei sacchi e «le scarpe talmente gelate  che suonavano come campane».  Come faremo a scendere? Aveva domandato Levi all’amico, quando sugli  ultimi tratti di salita già calavano le  ombre dell’oscurità. Per scendere vedremo, aveva risposto  Delmastro, aggiungendo: il peggio  che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso.

Era questa la carne dell ‘orso: il bivacco imprevisto, nella notte gelata. Rievocando l’episodio in una delle pagine  più belle e commosse del Sistema periodico, Primo Levi scrive: «Ora, che sono passati molti anni, rimpiango  di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del  proprio destino».

Sono state scritte e dette molte cose,  moltissime, sul significato della montagna, dell ‘alpinismo, del l’arrampicata,  ma niente di più semplice di  queste parole: liberi anche di sbagliare  e padroni del proprio destino.

intervista di Alberto Papuzzi
Rivista della Montagna n.61, marzo 1984

In questa intervista a Primo Levi alpinista, raccolta da Alberto Papuzzi per la Rivista della Montagna, il tema dell’alpinismo come simbolo di ribellione e libertà, anche quella di sbagliare, ci riporta al racconto Ferro da Il sistema periodico. È qui che Levi elabora la definizione “gustare la carne dell’orso” e la mette in bocca al protagonista del racconto, Sandro Delmastro, conosciuto tra i banchi dell’Università e nei lunghi pomeriggi trascorsi nel laboratorio di chimica, mentre fuori “era la notte dell’Europa”. Siamo nel marzo 1939, pochi mesi dopo avrà iniziò la seconda guerra mondiale.
Del fascino delle vette e della sua profonda passione per l’alpinismo Primo Levi parlò esplicitamente  in una conversazione con Alberto Papuzzi realizzata nel 1966 e raccolta nel volume Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, edito da Einaudi nel 1997. 

La foto di copertina che ritrae il giovane Levi in compagnia di Alberto Salmoni è tratta da Il fascino della Geografia Umanistica e l’Umanesimo di Primo Levi pubblicata con l’autorizzazione del Direttore del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino 

Le altre foto sono tratte dall’articolo citato.

Alpine Sketches, 2013