Orizzonte degli eventi

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di Luca Signorelli

Ormai credo lo sappiate tutti. La foto qui sopra, che ho visto già definita in tutti i modi, da ciambella incandescente a occhio di Sauron, è la prima foto mai scattata di un buco nero.

Non una simulazione al computer (come quella di “Interstellar”). Non un disegno. Questo è un vero buco nero, ed è la prima volta che ne vediamo uno, circa centoquattro anni dopo che il signor Einstein finì di scrivere la teoria matematica che ne prevedeva l’esistenza (la Relatività Generale) ed esattamente 100 anni dopo che un’eclissi solare nel 1919 fornisse la prima prova reale che quella teoria era giusta.

Il tipo di buco nero dell’immagine è chiamato “supermassivo”, ed è spaventosamente enorme. In un punto inimmaginabilmente minuscolo al centro del “buco” (che in realtà si chiama orizzonte degli eventi) si trova una massa equivalente a 6 miliardi e mezzo di masse solari. Nell’orizzonte degli eventi ci starebbe comodamente tutto il nostro sistema solare. E per attraversare l'”anello” incandescente la luce ci mette quasi quattro mesi. Il buco nero si trova al centro di una galassia lontana eppure non lontanissima, M87, a 55 milioni di anni luce di distanza. La galassia di per se stessa è visibile con un telescopio amatoriale discreto sotto un cielo notturno abbastanza scuro, soprattutto in primavera.

Per vedere il buco nero (che dal nostro punto di vista è come se fosse un CD appoggiato sulla superficie della luna, oppure un atomo tenuto ad un braccio di distanza) ci sono voluti decine di radiotelescopi sincronizzati fra di loro per ottenere un’immagine che nessun singolo strumento attualmente a nostra disposizione avrebbe mai potuto ottenere

Il significato di questa foto dal punto di vista scientifico è quasi difficile da immaginare. Qualcuno ha detto oggi che c’è un “prima” di questa foto, e un “dopo”. Sembra un’iperbole ma in realtà è quasi un eufemismo. Questa foto dimostra in modo concreto quello che per cent’anni è stata un’ipotesi via via più credibile. La tecnica usata per scattarla (chiamata VLBI) sta evolvendosi in maniera rapidissima grazie al numero maggiore di radiotelescopi che verranno usati e la potenza dei computer usati per elaborare le immagini, e nel giro di pochi anni avremo foto sempre più nitide, che permetteranno di svelare sempre più dettagli e scoprire nuovi misteri (dei buchi neri sappiamo molto in teoria, poco o nulla in pratica). La collaborazione internazionale che ha permesso questa foto è stata un successo, e (speriamo) un successo che attirerà nuovi finanziamenti.

Come per l’autore dell’articolo qui sotto, e come per tanti altri della mia generazione questa foto ha un significato personale. Credo molti di noi si ricordino la prima volta che hanno sentito parlare di queste mostruosità celesti. Per i più giovani può essere stato “Interstellar”, per qualcuno più “grande” “Il Buco Nero”, un vecchio tentativo Disney di far concorrenza a “Guerre Stellari”.

La mia memoria va più indietro, al Natale 1973. Avevo 12 anni e il naso sempre ficcato in qualche libro di storia o astronomia. Uno zio piuttosto lungimirante mi portò in una libreria di Torino per farmi scegliere un regalo. All’epoca ero in botta sulla fisica stellare, così scelsi “Astrofisica Oggi”, una raccolta di articoli de “Le Scienze”, la versione italiana di “Scientific American”. Gli articoli erano abbastanza approfonditi, ma non impossibili da leggere per un’entusiasta come me. Passai tutte le serate seguenti a divorarlo. Ad un certo punto giro pagina e vedo un’articolo, senza fotografie ma con un sacco di disegni strani. Autore un certo Roger Penrose, uno scienziato inglese che allora – assieme a Stephen Hawking – stava cambiando il mondo della fisica. Ma io ovviamente non lo sapevo.

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Ovviamente la prima cosa che mi colpì fu il titolo: “I Buchi Neri”. Ricordo di averlo letto da cima a fondo tre volte prima di capire “cosa” fossero questi cosi. Ammetto che mi ci volle un po’. Erano oggetti che non emettevano luce – questo era chiaro. Erano provocati dal collasso di stelle enormi. Ma l’autore, attraverso quei bei diagrammi che tanto mi avevano colpito, spiegava anche altre proprietà strane, cose che capitavano allo spazio e al tempo quando si “entrava” dentro questo benedetto buco nero. Mi colpì soprattutto il nome della superficie che divideva il “dentro” dal “fuori”: orizzonte degli eventi.

Non è che ci avessi capito moltissimo, ma fui subito preso da un entusiasmo tipico da dodicenne con letture disordinate. Passai una sera a cercare di spiegare il tutto a mia zia, che con grande pazienza rimase ad ascoltarmi (sostiene tuttora che in realtà si fosse divertita – è una zia molto paziente!). Ma mi rimase un po’ di malinconia. L’autore spiegava chiaramente che i buchi neri erano troppo piccoli e distanti per essere osservati direttamente (allora i buchi neri colossali come quello di M87 non erano previsti). Si, si sarebbe potuto usare qualche metodo indiretto – per esempio le onde gravitazionali, allora solo teoriche. Ma non ne avrei mai visto uno con i miei occhi.

Oggi quando alla conferenza stampa hanno fatto vedere lo “zoom” (animato) su M87 e poi la foto, ammetto di aver sentito qualcosa di strano in gola, poi una specie di sollievo, misto alla tristezza di allora. Fa quasi strano scrivere queste note, e pensare che mio padre (storico di professione e non un grande appassionato di fisica, ma persona dalla curiosità infinita) non possa leggerle, e fare qualcuno dei suoi commenti, sempre intelligenti e stimolanti.

In fin dei conti agli appuntamenti cruciali si arriva sempre tardi.

 

https://www.quantamagazine.org/what-the-sight-of-a-black-hole-means-to-a-black-hole-physicist-20190410/?fbclid=IwAR23fonum_BhwBngLpQbjqYVzcIH2-1mbnBjyNkRo6iPRijzW2y4EGEUE0A

11 aprile 2019

testo di Luca Signorelli
La foto da Le Scienze è di Paolo Cavazza

Alpine Sketches, 2019