di altre storie

di Stefano Lovison

 

”Solo i giovani hanno di questi momenti. Non intendo dire i giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. È privilegio della prima gioventù vivere in anticipo sui propri giorni, nella bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezione.
Uno chiude dietro di sé il cancelletto della fanciullezza – ed entra in un giardino incantato. Là persino le ombre rilucono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha un suo fascino. E non perché sia una terra tutta da scoprire. Si sa bene che l’umanità intera l’ha percorsa in folla. È la seduzione dell’esperienza universale, da cui ci si attende una sensazione singolare o personale: un po’ di se stessi.”
[Joseph Conrad, La linea d’ombra]

Io e Luisa

Io e Luisa

 

C’è stato un periodo in cui ad un gruppo di amici accaddero degli eventi particolari, momenti che solitamente capitano a chiunque e che non hanno nulla di sensazionale ma che ai loro occhi e per una serie di fortuite concomitanze presero la forma di momenti irripetibili e unici, tanto da fargli credere che  queste cose ‘eccezionali’  succedessero soltanto a loro.

Fu tra il 1977 e il 1983 –  la datazione è utile ma non così importante – e si trattò di un lasso di tempo definito, preciso e lunghissimo in cui, per quella capacità che hanno solo i giovani, ci capitò –  eravamo noi quel gruppo di amici – di vivere intensamente ogni attimo di vita da sentire passare più lento il tempo e più lunghi del normale i giorni e le settimane, figuriamoci gli anni.

Era stato con la fine delle scuole superiori  che per molti di noi era cominciato un viaggio particolare, non definito ma lieve, della sostanza luminosa di uno stato di grazia. Le nostre storie personali e intime molto spesso si intrecciavano con fatti collettivi di grande energia, umana, politica e culturale com’era in quel periodo, pervaso non solo dagli eventi tragici di quegli anni ma anche da una tensione generale estremamente creativa e gioiosa.

Durò così poco.

Il ’79 fu insieme la fine della spensieratezza e lo spegnersi di un intero ‘movimento’, molti dei nostri viaggi presero allora strade diverse, a volte così distanti da non riservarci più nemmeno un incontro … com’è per la vita vera, la vita normale.

Sfogliare queste foto è ripercorrere in un piccolo affresco generazionale il vissuto di un’epoca, minore e confinata a noi ma veramente irripetibile, nel momento in cui ci stavamo costruendo la vita, piena zeppa di sogni, ambizioni alte e amori che non sarebbero mai finiti. Forse con l’unico orgoglio di pensare che in fondo non siamo mica tanto cambiati e si vede in quelle foto che già lo sapevamo come sarebbe andata a finire.

Ci sono giorni in cui quel brivido mi torna lungo la schiena. E’ solo il fiato spento della gente a cui i giorni e le settimane sfuggono di mano sempre più rapidamente ma è il senso di tutto quello che un tempo è stato: l’alito acerbo di ogni giovane del mondo, sia esso in una piazza a manifestare oppure nel cercare la propria strada o ancora negli occhi della ragazza che ama. Lo stesso alito, lo stesso momento di grazia, unico e irripetibile.

Il resto non c’entra, di come poi siamo diventati, sfigati, disillusi, falliti o appena mediocri o cosa altro siamo noi adesso.
Io so che per quanto invecchiati, “rotti e stracciati”, a quelle persone, agli amici e alle donne che ho amato porterò per sempre grande riconoscenza e debito di affetto.

 

Soundtrack
Luglio Agosto Settembre (Nero), Area;
Freak Out!, Frank Zappa;
Ho visto degli zingari felici, Claudio Lolli;
The Soft Machine;
Banco del Mutuo Soccorso;
The Piper at the Gates of Dawn, Pink Floyd;
Starless, King Crimson.

La prima volta che varcai la soglia della casa di Sergio, in via Storlato, era giorno pieno ma dentro regnava la penombra e l’aria era viziata dal fumo di sigarette. In cucina, seduti al tavolo rotondo, c’erano Cesman, Tranci, Gianni e Bla. Stavano giocando a poker avvolti dal fumo e da una calma irreale. Era il 1976, non era carnevale ma erano tutti vestiti da cow boy. Il silenzio all’improvviso fu rotto dalla voce di Gianni che, alzatosi di scatto in piedi, urlò: “Ti ho visto, hai barato…” Si alzarono tutti all’improvviso, le sedie caddero e vi fu una sparatoria. Echeggiarono dei colpi, non ricordo quanti ma ricordo l’odore dei ‘capetoni’. Stramazzarono senza un lamento Tranci e Cesman. Bla depose lentamente la Colt (che in realtà era una Luger, visto che al supermercato di pistole non ne avevano altre). Fu il giorno che entrai nella banda.

 

1977, a scuola durante una pausa. Fuori, nel bagliore, oltre l’azienda agricola, la vista dava sul fiume Bacchiglione, la campagna e i Colli Euganei a una decina di km.

 

Questo è un sabato pomeriggio d’inverno lungo un piccolo fiume di periferia. Questa campagna è rimasta praticamente così a parte un enorme distributore che ingombrerebbe la foto proprio al centro. Jack sta preparando un’imboscata a Luisa: la tortura solitamente era fatta di lievi frustate ma era l’inseguimento la parte più selvaggia del gioco …

Questo è un autoscatto. Lorenzo studiava sempre, solo che non era mai nel posto giusto al momento giusto e in sincronia con il programma delle lezioni. E’ diventato un grande esperto di lucertole, ricercando in svariati luoghi del mondo il segreto della ricrescita della loro coda perduta … perdendo anche una promettente carriera accademica.

Qui siamo nella casa di campagna di Cesman, una delle case più terrorifiche che io conosca e dove era obbligo dormire almeno in quattro per via di certe presenze. In questa cucina, in una notte di tempesta, si svolse un esorcismo a base di scoregge piroplastiche descritto negli annali di Sant’Anna di Chioggia.

Silvio, Luisa, Giuli e Pape allo stereo (mio) 1983. Alla guida del Bedford – non inquadrato – c’è Neio. Sicuramente siamo di ritorno da Arco

1977, colli Euganei, monte Gallo, penso. Luisa e Barbara alle chitarre. Di sicuro stanno cantando qualcosa di Neil Young (o anche di Cat Stevens). La Cimar col Che non l’ho più, aveva un bel suono. Questo con tutta la serie di foto di quel giorno rappresenta al meglio uno stato di grazia di un momento perfetto a cui sono molto legato.

Luca con il mio cucciolo Dodo. Archeologia industriale di una fornace ormai dismessa nella periferia industriale di Padova, in contrasto con una bella villa veneta. Villa Gandini, edificata in epoca napoleonica sul misterioso terrapieno detto Arzeron della Regina a Ponterotto – prima che fosse livellato per lasciare spazio ai condomini e alla piazzetta Sakarov – i cui filari di uva bianca dolcissima si estendevano per quasi un chilometro fin oltre alla casa dei Romanato.

Cristina, mia sorella

Ponte ferroviario sulla Brentella

Luisa in un luogo e in un tempo indefiniti… le imperfezioni fanno parte delle schegge dei miei ricordi

Enrico

Questa è una gita scolastica e siamo a Mezzolombardo. Jack e Pacca sul trattore.

1977, un vaffanculo epocale

Beh anche durante le gite si marinava …

Mauri e Cesman

settembre 1978, in treno verso la biennale

stessa direzione di prima: Luisa

Portocaleri, 1979

Scardovari, natale 1979. Luisa, Daniela e Jack. Questi erano i suoi luoghi. Lui, Cesman, Bla ci venivano spesso per pescare ma soprattutto per fumare e ridere: non hanno mai preso un cazzo…

Daniela

Jack

Luisa

Mio zio Anselmo ‘Memo’ nella casa dove nacque mia mamma. Ora non ci sono più ma la casa, piccola e malandata è ancora in piedi.

Istituto Agrario Duca degli Abruzzi, 1977,  quinto anno! Era una classe strana, divisa in due anche fisicamente. Da una parte i veri uomini, quelli coi ‘fiorucci’ che andavano in discoteca e scopavano; dall’altra i burattini, quelli giravano all’alba per le barene del delta del Po e la sera al CinemaUno …

in Valparola

Andalusia

1978 in un luogo imprecisato della altopiano … la montagna non apparteneva ai miei interessi.

Barbara

Ponterotto, 1977. Io e Dodo

1978. Renata

Con Enrico (la Dyane era sua) e Luca, maggio 78, Umbria

1982 in via Falloppio (l’appartamento di Cesman era ‘via falloppio’), io e Daniela

1983 Val Gardena

Cesman

durante un viaggio con il Morini 150 di Sergio finimmo in un seminario di Pavia. Qui passammo alcune notti prima di trasferirci per la vendemmia nelle colline dell’ Oltrepò

preparando gli esami, 1977, Trieste

“Dalla notte trascorsa insieme si consideravano segretamente fidanzati. Lui l’aspettava nel viale dell’Acquedotto, alla base dell’erta di via Rossetti. […] Camminavano lenti sotto gli ippocastani incurvati del viale, i tavolini dei bar da una parte e dall’altra […]
(Gli sposi di via Rossetti di Fulvio Tomizza)

Nel giugno del 1977 preparai gli esami di maturità a Trieste. Non mi fu da subito chiaro ma venni spedito presso amici di famiglia, distante dalle compagnie di sfaccendati di Padova per recuperare un quadrimestre disastroso. 

Le estati dei miei ricordi si perdono nella luce abbagliante del sole e profumano di pomodori e peperonata.

Mentre correvo con tutto il fiato dei miei diciott’anni su per via Rossetti che è tutta in ripida salita sentivo già dalla strada i profumi intensi dei pranzi di famiglia Pesce, i miei tutori.

Al fresco della sala da pranzo, fuori la calura era appena lenita dalla brezza delle città di mare, la mamma di Sergio preparava piatti succulenti, cose buone e saporite che portavano la fragranza di gusti sconosciuti della cucina del meridione. Ex cantante lirica, mentre ci serviva, la sentivi canticchiare sulle musiche di prova al teatro Rossetti; il papà, impiegato in quale misterioso ufficio dei Lloyd delle compagnie portuali, sedeva serio e taciturno a capotavola.

Io arrivavo affamato come un lupo dalle mattinate di libertà totale che mi veniva fiduciosamente concessa.

Dalle scorribande in val Rosandra o dai bagni di Barcola; oppure a fotografare i pescatori nel porticciolo di Muggia; o dai ruderi della città vecchia su in alto, solo per vedere il panorama verso l’Istria o dalla strada Napoleonica con la tranvia per Opicina.

Penso di non aver studiato un solo giorno.

Sergio mi affidò il suo appartamento di via XX settembre quasi avvolto dalle fronde dei platani. Era ingombro di libri, pile di libri e riviste dappertutto e centinaia di dischi, musica di ogni tipo, soprattutto classica ma anche rock.

Non so per quale motivo Sergio mi prese a suo allievo.

Tutto quello che so della fotografia lo imparai da lui. Dagli obiettivi delle preziose sue Leica a telemetro 30, 60, 90 mm, alla profondità di campo e le esposizioni; a bobinare negativi e a svilupparli nella spirale e a stampare foto col piccolo ingranditore Durst in bagno.

Poi col pianoforte mi insegnò a capire la musica, da Beethoven a Cole Porter fino a cercare di spiegarmi il perché delle note spezzate di Webern e Stockhausen. E nelle lunghe notti di quel caldo giugno, attraverso il fumo di centinaia di nazionali spente e riaccese, passarono in quelle stanze gli spiriti di Svevo e Rilke, Stuparich e Slataper; i segni di Basaldella, Vedova, Spacal; i profili delle Dolomiti di Carbonin nella musiche di Mahler e i monti Pallidi negli acquerelli di Cozzi o nei racconti di Buzzati.

In quella lontana estate mi si schiuse la porta di una nuova libertà e di come l’arte, qualsiasi sia la sua forma, può aiutare a guardare oltre i propri confini e abbattere convenzioni.

Sergio era un uomo molto inquieto. Non visse poi a lungo e portò con sè quell’universo di sensibilità nel modo solitario e distante da tutto che l’aveva accompagnato in quel poco vivere.

Io fui promosso, nonostante tutto, e Trieste di quel giugno non la dimenticherò mai.

Pavia

Luisa

Renata, 1978

Luisa

Di sicuro è che qui siamo in via Crescini e che quello è vino bianco se è vero che da Mauro si vendeva vino, ma la data è incerta, e pure l’autore di questo piccolo ritratto generazionale. Potrebbe essere di Mauro (che diventerà un ottimo fotografo professionista) ma è troppo incastrato lì in mezzo per aver regolato lui l’autoscatto. Il negativo io non ce l’ho ma sono strasicuro che l’autore non si offenderà per questo. Hasta luego!

 

Changes

Apro la caffettiera e con movimenti misurati la riempio di caffè, poi col dorso del cucchiaino premo la polvere con attenzione per non farla debordare fino ad una lieve resistenza.

L’occhio cade sul tavolo. E’ grande ma completamente ingombro di foto.
Sono stampe in bianco nero, per quello che la camera oscura all’epoca permetteva: un durst, due bacinelle e tante sigarette. Le foto,  nel formato 18×24 e 20×30, qualcuna, la meno difettosa, 30×40, sono in un disordine esteticamente perfetto.

Avvito la cuccuma e la metto sul fuoco.
Vedo Jack che insegue Luisa e Cesman con in mano delle lunghe fruste d‘erba. Cesman (non Chessman bada bene, è proprio un soprannome del cazzo) ride fumando e se ne frega, tanto non è lui l’obiettivo; lei scappa piacevolmente terrorizzata all’idea di un molto probabile sacrificio finale.
Sfoglio le foto con un falso senso di noia.

Appena più sotto ce n’è una dove siamo in treno mentre torniamo dalla biennale, penso sia del 1978, collocandola rapidamente tra la maturità e una vendemmia.
Qui invece siamo in campagna. Dalla camicia stirata potrebbe essere un giorno di festa e non di scuola occupata o sciopero, di sicuro è primavera. Le ragazze suonano, io che le fotografo mi compiaccio del momento. Capisco che sarà un’ottima serie di scatti e già mi preoccupo dello sviluppo, dei tempi giusti e della temperatura e del momento in cui al buio dovrò infilare la pellicola nella spirale.

La macchinetta sul fuoco borbotta mentre rivedo in quelle di scuola l’insulsa arroganza dell’adolescenza.

Ma non c’è una foto dove ci siano degli adulti o che rappresenti la famiglia? Sono tutti scatti di vagabondi che pensavano di essere individui straordinari.

Sul pontile Luisa guarda l’acqua, la fissa senza guardare niente. Riesce ad essere spontanea con la sicurezza di chi sa di essere osservata dal lato buono e forse anche amata.

Qui siamo sui binari, Gianna fotografa il mare e io fotografo lei. L’ambientazione è così giusta che non c’è niente da studiare, solo da chiudere il diaframma. Il bel rumore della tendina che si apre mentre lo specchio si alza della reflex meccanica sembra dilatarsi in un tempo indefinito ben oltre il centoventicinquesimo di secondo di quel clic.
Chiudo il fuoco, il caffè è pronto e lo verso nella tazzina.

E ancora, l’ennesima pentatonica in mi, un viaggio in moto, il vino, Pamplona dopo ‘Fiesta’ di Ernesto, una notte in un ostello religioso, la neve e il sole, l’innocenza e la rabbia. Si sovrappongono nel disordine occhi di donne che ho amato e di amici con cui ho condiviso il fumo, i soldi e i sogni, fino a finirli tutti.
Un sospiro mi viene più profondo. Maledetta l’idea che ho avuto di mettere ordine in quel baule… ma ordine a che?

Il caffè è ormai freddo, sono passate delle ore. Berlo adesso vuol dire non prendere più sonno.

Massì, due cucchiaini di zucchero per esagerare.
Fanculo, stasera me lo voglio bere proprio dolce!

Stefano Lovison

alpine sketches©2011