La teleferica

telefericadi Stefano Lovison

Il sole aveva molto girato e le ombre fatte più lunghe sulla Piazza della Libertà. Conoscevamo ormai le pietre, io e Jack, e avevamo fatto anche amicizia con alcuni negozianti quando, ormai inaspettatamente e con cinque ore di ritardo dall’appuntamento previsto, si presentò Franco.

” Pensavamo fossi morto”,”anzi, ne eravamo certi” dissi e Jack con voce burocratese: “Incidente mortale plurimo causato da stato di ubriachezza, imboccava contromano la rampa… da controllo il veicolo risultava privo di copertura di assicurazione obbligatoria scaduta a luglio dello scorso anno”. E per finire “Ma vaafancuuulo te e quegli sposini di merda!!!”.

Lui sorrise con una faccia di tolla, era brillo e allegrotto dopo il matrimonio dei suoi amici.

Io avevo quasi disertato il lavoro e Jack certe misteriose occupazioni per questo importantissimo appuntamento in valle. Abbandonata la moto sotto un portico salimmo sulla macchina di Franco, una ford sierra di un colore celestino che sembrava più pallido del solito da quanto eravamo incazzati neri. Senza una parola se non per qualche bestemmia di rito prendemmo la statale nel rado traffico del sabato sera ad una folle velocità.

Jack che non era mai stato una cima come autista elencava le infrazioni stradali, tralasciandone parecchie per palese ignoranza del codice.

Era ormai buio e quelli che non avevano fatto il banchetto nuziale avevano lo stomaco vuoto per il nervoso e una gran fame. Passammo Tramezzo e dopo Villa Montina intimammo a Franco con l’arroganza dei nostri diritti una fermata di ristoro. Franco annuì docile e bloccò la vettura davanti ad un ristorante-baitella caruccio con dei nani in giardino. Almeno un bel piatto di tagliatelle avrebbe lenito un po’ l’umore nero, pensavo.

Appena entrati individuammo tra il fumo delle sigarette un uomo molto grande dietro al banco, era enorme per quei nanetti lì fuori e forse aveva il cuore tenero. Macchè.

“La cusina a je sierade!” tuonò e le nostre imprecazioni si persero tra le bestemmie degli altri avventori.

Ordinammo allora un paio di toast, parola moderna scandita dal barista con voce altissima una lettera alla volta, T-O-A-S-T; e poi delle fieste e un litro di vino bianco.

Finchè trangugiavamo le pastine Franco andò al telefono a gettoni. Si vedeva da dietro il vetro che gesticolava visibilmente alterato.

“E allora?” chiese Jack sorridendo con i denti neri di cioccolata.

“N’demo su col fìo”.

“Il figlio di chi?” dissi con espressione leggermente da mona, “perché adesso si va su in quattro?”.

“Ma no. Col cavo de fèro… ea teleferica! Nereo ne’ spetta su al rifugio”.

“Nol me pareva tanto contento de risentirte…” accennai con l’aria svagata di chi vorrebbe dire qualcos’altro.

Pagato il conto salimmo a bordo della sierra e per effetto del vino il bosco fitto della Val Montina non ci sembrava poi tanto più nero. Pochi chilometri ancora e Franco nel buio pesto individuò il casotto di servizio del rifugio.

Nel mio immaginario la teleferica era grande quanto quella che prendevo di solito a col Verde per andare alla Rosetta, forse solo un po’ più piccola e meno accogliente ma ero proprio contento di risparmiare quasi due ore di salita, con tutto quel vino in corpo e dopo una giornata da dimenticare.

Quando ci avvicinammo all’impianto, alla vista del tavolato pensai ad un errore e dissi “Qui carichiamo gli zaini. Noi dove si va?”.

“Come dove si va? Qui sopra si va!”.

La base di legno era grande quanto una porta con una leggera alzatina di metallo sui quattro lati. Ci guardammo mettendo in moto istantaneamente un piano B emozionale. Jack che amava le giostre e aveva fatto un record di resistenza e coraggio quando si issò sul pennone più alto di un galeone al Prater di Vienna, tastò con sicurezza l’affidabilità della struttura e saltò su. Dovetti seguirlo in quel mini ricovero. In cuor mio pensavo (era il mio piano B) ad un lungo trasferimento a filo delle punte dei pini.

Franco con uno scalpello di ferro diede delle poderose randellate sul cavo e dopo qualche istante il cargo con noi due sopra prese a salire. Franco ci avrebbe poi seguito al giro successivo.

L’aria fredda della notte ci prese quasi alla sprovvista. La luna sorse a notevole velocità sul profilo del bosco. L’atmosfera era estasiante. Nel silenzio appena rotto dal rumore di brezza volavamo sul tappeto volante di Baba Yaga, con una falce di luna che rischiarava appena gli abeti della bassa valle. Ma ci volle poco per interrompere la magia di quei momenti. Cominciarono ad emergere dal silenzio degli strani cigolii. Il tavolato era appeso ad una puleggia e tutto l’insieme dondolava in modo sinistro in un senso e nell’altro e infine cominciò a compiere un moto circolare per nulla gradevole. Non bisognava essere esperti di impianti a fune per capire che il sistema di sicurezza si limitava alla puleggia di sostegno sulla fune portante ed una corda di ferro di traino, stop!

Eravamo ormai altissimi. Agguantavo i bordi delle alzatine anteriori con tutte le mie forze. Jack, appena dietro ghignava nervoso. Non parlavamo. Nel buio ci rendemmo conto che ci stavamo avvicinando a bella velocità alla fine della prima grande campata dove ci attendeva il passaggio in una stretta struttura di sostegno intermedio. Sfiorammo i tronchi della volta e il passaggio avvenne con grande sconquasso e cambio immediato di tutti i movimenti.

Avevamo però superato il grande salto e la nuova campata si sviluppava in un bosco dove ci sembrava di sfiorare le punte dei larici più alti. Passammo dal terrore ad una serena rassegnazione ma proprio in quegli attimi vedemmo il nostro porto d’arrivo. Si materializzavano nel buio prima delle luci e poi anche braci di sigarette accese. Diverse persone ci attendevano, sembrava una festa in nostro onore. Mi sentii sollevato da un gran peso e anche grato per quella accoglienza, in verità senza nessun merito.

La teleferica cominciò a rallentare quando eravamo ad una cinquantina di metri d’altezza. Tutti gli ospiti del rifugio attendevano il nostro sbarco. Mi preparai con un sorriso a 36 denti anche perché ero proprio contento, pensai anche a qualche parola di circostanza.

Quello che sembrava il capo ci accolse con uno splendente: “Scendete deficienti!”. E così facemmo passando tra due ali di persone sconosciute abbastanza arrabbiate con noi e anche con ‘quell’altra testa di cazzo’ che stava salendo. Ci mettemmo in disparte e aspettammo Franco.

La serata, naturalmente, come per ogni scampata tragedia finì a grappe e anche con qualche malinconica canta, fino a tarda ora. Facemmo poi amicizia con Nereo, il gestore, e anche con molti degli ospiti prima di salire in camerata. All’alba ci aspettava la salita al Cimone della Montina ma questa è un’altra storia.

Mesi dopo Il Gazzettino riportava una notizia di poco conto ma per me fu come un folgore: “Precipita teleferica in val Montina. Incidente strutturale, nessun danno a persone“.

Di quel carico precipitato i cercatori di funghi trovarono decine di michette soffiate sparse sulle rive del torrente Montina.

——-

testo di Stefano Lovison

foto di Stefano Lovison

© Alpine Sketches 2015