Una voce dall’Altopiano

A colloquio con Mario Rigoni Stern

di Alberto Papuzzi

 

Mario Rigoni Stern alza gli occhi di vecchio montanaro verso l’ultimo sole che entra dalla portafinestra della sua casa sull’altopiano, ai margini del bosco, dove vengono i caprioli affamati e nidifica il fiorrancino.

«Laggiù – dice – c’è il Pasubio, dall’altra parte il Grappa, qui dietro l’Ortigara. La mia patria non è l’Italia, è quello che vedo dalla mia casa, è l’altopiano, e queste montagne, una terra che i miei antenati hanno scelto mille anni fa: questa è la mia unica patria, o la matria come dice Zanzotto. Al di fuori di questi confini, il resto, tutto il resto, è universo».

 

La pensava così anche Tonle, il protagonista del suo libro più bello, montanaro ramingo costretto all’esilio, che anela sempre di tornare alla sua casa col ciliegio sopra il tetto di paglia. «Tonle abitava là sopra» dice Rigoni Stern, con un vago gesto della mano. Sopra, verso il Moor dove pascolano le vacche, c’era la casa del giornalista Gigi Ghirotti. Sotto, invece, a meno di duecento metri c’è quella del regista Ermanno Olmi. Una contrada di nome Rigoni, questa parte di Asiago si chiama contrada Rigoni, che erano uno dei ceppi antichi della popolazione dell’altopiano; il nome probabilmente viene da Righen, una regione germanica. Adesso, c’è gente che viene su con le Land Rover o la Rolls Royce dove i contadini trascinavano le slitte con il carico di fieno e le donne sopra. Però non ci sono castelli né cattedrali, perché era una popolazione libera: una civiltà montanara senza classi. Sotto l’Austria non si dovevano tributi né obblighi militari. C’erano trenta pecore per abitante, una ricchezza, e fioriva il commercio del legname con Venezia. I reggenti governavano in nome del popolo, assicurando sovvenzioni a medici e insegnanti e aiuti in farina e formaggio agli indigenti.

 

Gli Stern sono un ramo dei Rigoni di cui si ha memoria da circa tre secoli. Dediti al commercio, vendevano in pianura i prodotti delle malghe, cacio e burro, e portavano ai malgàri attrezzi da lavoro, vestiti, scarpe. Tra essi si ricordano viaggiatori straordinari, che partivano dall’altopiano al seguito dei pastori durante la transumanza per raggiungere a piedi Padova, dove frequentare la facoltà di medicina, o Vienna, dove studiare ingegneria forestale. La vecchia casa dei Rigoni Stern era nel centro di Asiago, proprio nella piazza, dove ora ci sono condominii, boutiques, vetrine di souvenir: una grande casa con negozio, stalle, granai, magazzini, in cui dalla metà degli Anni Trenta cominciò a profilarsi l’ombra della decadenza sotto i colpi della crisi economica.

 

In tedesco Stern significa stella, ma nell’antica lingua dell’altopiano, il cimbro, significa anche roccia. Rigoni Stern faceva gite e gare di sci, ma la roccia la conobbe alla Scuola militare alpina di Aosta.

«Avevo 17 anni e amavo la montagna. A casa soldi non ce n’era più tanti. Volevo fare il maestro di sci e la guida alpina, così pensai che arruolarmi fosse una buona cosa: ero forte e coraggioso, volevo diventare istruttore. Fu allora che conobbi Cassin, Comici, Chiara, Esposito… Perché nel ’39 furono richiamate le guide alpine e gli accademici del CAI, tutti in un battaglione: c’erano anche i Fiorelli, i Pession, i Demetz, i Rey, e Gigi Panei, Sacchi, Gualdi e poi Carrera e Butti dei «Ragni» di Lecco. Ci esercitavamo alla palestra del Castello dove sta ancora adesso il comando della «Smalp».

Andavamo in Val Formazza, nel Gran Paradiso, a Campiglia Soana, e poi naturalmente il Bianco, e le Grandes Jorasses in invernale». Un giorno il caporalmaggiore Rigoni Stern deve fare istruzione sul lancio delle bombe a mano. I soldati si siedono nel prato, tra le tende, sotto i larici. Rigoni Stern smonta una bomba, la rimonta, la maneggia, toglie la sicura, fa un po’ il gradasso: «Allora Comici, pallido, mi dice: guarda, non muoverti, adesso stai fermo e metti via tutto. Era proprio spaventato … Il giorno dopo mi dice: si va a arrampicare? Andiamo in Val Money, su placche di granito. Prima di salire, già legati, mi dice: adesso te la faccio vedere io la befana. E siccome Comici aveva dita che si attaccavano dappertutto quella volta la befana mi toccò vederla davvero. Non riuscivo a salire né a scendere e stavo appeso alla corda, come un salame».

 

Era pieno di ammirazione per Chiara, che era sergente ed era un gigante. La compagnia stava al Vittorio Emanuele quando Chiara aprì la sua via sul Ciarforon, in due giorni, con i primi Grivel a dodici punte, chiodi un po’ più lunghi dei soliti e le suole Vibram. «lo li seguivo dal rifugio, col cannocchiale dell’eliografo, Chiara, suo fratello e Catinelli. Saliva scavando profonde nicchie nel ghiaccio, piccozzando con quella forza spaventosa che aveva. Alla fine, quando apparve nel vano della porta, io gli dissi: è andata, sergente? E lui: sì, è andata bene, però che stancada! Poi fa segno verso una bottiglia di grappa. Volevano versargliene un bicchierino. No, dà qua, can de l’ostia! E si scola la bottiglia».

 

Adesso Rigoni Stern ci fa vedere le fotografie di quando andava in montagna. Un vecchio album, coi fogli di cartoncino nero e le fotografie giallognole e arricciate. La prima è a 15 anni, Cima Dodici, calzoni alla zuava, corda sulle spalle e il mazzolino di stelle alpine nella mano. Dietro un’altra c’è scritto: «La terribile cordata Dalle Nogare, ten. Suitner, Rigoni, in azione sulla palestrina. Campiglia, maggio ’40».

Dice: «Che bocia gera!» E poi: «Questo è morto in Russia. Anche questo. Questo in Albania. Questo è morto in campo di concentramento … »

 

Ti piaceva la roccia? «Sì, mi piaceva. La ricordo con entusiasmo e anche malinconia, perché poi, dopo la guerra, ero così malandato che non ho pensato più ad arrampicare. Mi sembrava che nessuno capisse niente, neanche i compaesani, neanche gli amici. Avevo visto campi di sterminio, imboscate, impiccagioni e milioni di morti. Per parecchi mesi partivo all’alba per girare le montagne e tornavo la notte, e appena veniva la neve prendevo gli sci e cercavo nei miei boschi la solitudine e il silenzio. Chissà, se invece dei boschi da sciare e da camminare avessi avuto le rocce da scalare, avrei scalato». Era alpino decorato sul campo e promosso ufficiale per meriti di guerra. Ma restituì la divisa. «Non ho voluto e basta. Dopo tutto quello che avevo dovuto vedere. A restare militare mi sentivo un imbecille!»

 

Così va a fare l’impiegato del catasto; ma intanto mette insieme parola dietro parola il suo libro ancora oggi più famoso, letto ogni anno da decine di migliaia di ragazzi: «Il sergente nella neve», questa testimonianza indimenticabile della ritirata degli alpini dalla Russia, forte e tragica, triste e avventurosa, di cui l’inglese «The Observer» scrisse che può avere un grande peso nel combattere le indegnità di ogni guerra. Perché è una storia di ferite che ancora oggi non si sono completamente cicatrizzate.

 

Dice: «In famiglia siamo tutti alpini. Mio nonno, io, i miei figli. Da noi si dice: vendere la vacca per andare negli alpini. Ma all’ANA non sono iscritto. Perché vedo che si lascia strumentalizzare. Perché vedo certi politici ai raduni… E certi ex ufficiali che fanno i democratici una volta all’anno. Molti la pensano come me, molti che hanno fatto la Russia e la Resistenza. Tempo fa mi hanno anche denunciato perché ho detto che alla battaglia di Nikolaevka, quando siamo usciti dalla sacca, a combattere eravamo forse il 3 per cento; e avevo visto alti ufficiali strapparsi le mostrine per potersi imboscare … Ma queste cose io posso dirle, perché dalla sacca io sono uscito con un’arma in pugno».

 

La scuola, che fatica! A scuola il piccolo Rigoni non era tra i migliori. Studiare non gli piaceva. Ma leggere sì. Due volte all’anno, arrivavano ad Asiago i librai ambulanti, i Pontremolesi, per la fiera di primavera e per quella d’autunno. Arrivava, uno dei Tarantola, col carro e la cavalla, e esponeva i libri in piazza.

«Io stavo lì , con gli occhi sbarrati: c’erano i feuilleton, i gialli di Nerbini, i romanzi di Bietti, le Chanson de gestes, i volumi di Treves e la bancarella a prezzo fisso, ogni volume 2 lire. I Non sapevo mai cosa scegliere: «Ventimila leghe sotto i mari» o «I figli del capitano Grant»? Conrad o Gorkij? Era un investimento, perché quei due o tre libri dovevano durarmi dei mesi. Quelli della bibliotechina del parroco li sapevo ormai a memoria. I soldi li chiedevo un po’ a tutti. Avevo 10, 12 anni, facevo il giro dei parenti. Nonna, dàme 30 schèi. Papà, dàme ‘na lira. E per cossa? Per comprarme i libri. Ancora libri! Te deventi insemenio, a forsa de lègere. Sempre lègere.

 

Il «Sergente», Rigoni Stern lo consegna all’Einaudi nel 1949: esce nel 1953 nella collana «I gettoni» diretta da Vittorini, che apre una nuova stagione della letteratura italiana. Ma per i compaesani Rigoni Stern era solo uno che aveva fatto il sergente degli alpini e non aveva neanche finito la scuola. A una conferenza, gli dicono: ma cossa ti voi , sergente? Noi abbiamo letto i classici. Gli viene una rabbia fredda: io non so latino e greco, ma Tucidide in traduzione posso averlo letto… Quando esce il libro, la gente di Asiago dice: «bè, Einaudi xè un editor comunista e Rigoni xè un rivoluzionario, un roverso» . E il preside delle medie gli corregge il libro in rosso e in blu.

 

Poi il «Sergente» vince il Viareggio. Rigoni Stern torna a casa la sera, lungo una scorciatoia, con in tasca l’assegno di mezzo milione («pagai tutti i debiti e mi avanzò da comperarmi un fucile»), mentre gli amici con la fanfara lo aspettano invano in piazza. Vanno a chiamarlo a casa: ciò, xe un’ora che te spetemo. Te dégnito o no te dégnito? Erano i tempi in cui spesso andava a Milano, si incontrava con Vittorini e altri scrittori: mangiavano formaggio siciliano col pepe e bevevano buon vino. Da Asiago, Rigoni Stern portava talvolta le prede di caccia: tordi, cesene o galli. La notte passeggiava lungo i Navigli con Vittorini che fantasticava di emigrare in Canada.

 

Rigoni Stern scende in cantina a prendere una bottiglia di quel vino clinto che non si fa più e un vasetto del miele delle sue api , da regalarci. Nel soggiorno occhieggiano le opere grafiche di Zancanaro, Semeghini, Trude Waehner, Pizzinato, e gli astri rosa in un antico vaso.

Usciamo nell’aria fresca della sera che scende. Rigoni gira dietro la casa e prende la stradina del bosco. Ha la barba grigia e le spalle un po’ curve. Fa ancora 400-500 chilometri a stagione con gli sci, ma quest’anno per la prima volta nella sua vita ha rinunciato a una cima e si è fermato duecento metri sotto, con le gambe stanche e il fiato corto. Poi, ai figli e agli amici, gridava: «Movéve befane fasciste, gioventù della GIL», come i suoi alpini a quelli della milizia. Perché è ancora uno «sgalmaròn», come lo chiamavano i suoi, quando da ragazzo sbatteva le porte e non si puliva le scarpe. «Ti non ti xè nato in casa – gli dicevano – Ti ti xè nato in Vézzena ». Questa era una montagna a millecinquecento metri, con pascoli e cavalli bradi e bei fiori. Il piccolo Rigoni era così contento di venire da quei paesaggi che a scuola, sulla scheda anagrafica, alla voce luogo di nascita, scrisse: Vézzena.

 

È felice di vivere qui, tra le montagne. Una volta gli avevano offerto un bel lavoro in una grande casa editrice in una grande città, col suo ufficio tre per due, la scrivania, lo stipendio: «Ho guardato l’orario del treno. Facevo in tempo a tornare a casa la sera. E la sera ero a casa. No, io non son fatto per la città».

 

La montagna come sport, come sfogo di vitalità. La montagna come patria, in un universo senza patrie. La montagna come letteratura, con le storie del tarassaco e dell’urogallo. Ma prima di tutto la montagna come condizione esistenziale: «Ecco, io la sera esco qui fuori e vedo le stelle. Invece, se per caso accendo la televisione, mi capita di sentir fuggire i caprioli spaventati. Tuttavia,· nei boschi posso anche incontrare qualcuno con la radiolina all’orecchio: allora mi viene una mia malinconia, a pensare che non si accorge del suono del vento o del canto del fringuello». Rigoni Stern, perché scrivi?

«Se leggo Tolstoi o Cechov mi rendo conto di quanto sono miseri i miei libri, come se uno arrampicasse accanto a Comici o a Cassino Ma se leggo gli autori contemporanei, penso che posso scrivere anch’io. lo che non voglio dare messaggi, che non voglio fare prediche. Scrivo per parlare, per far compagnia, come quando sei in bivacco, o al rifugio. Stai lì a parlare, e qualche volta val più bere una grappa che parlare, e qualche volta val più stare a guardare il fuoco e fare niente».

 

Il sole cala dietro il Moor, come quando Rigoni Stern saliva a trovare Gigi Ghirotti, già malato del suo male, e Ghirotti «malinconico e assorto» aspettava la sera, avvolto nella sua coperta, rannicchiato nella sua poltrona. Una vacca immobile guardava l’altopiano: cosa guarderà quella vacca? Cosa penserà? Domandava Ghirotti. Forse – si rispondeva – vorrà riempirsi dentro di queste ore, per quando sarà in stalla. O per quando sarà morta. E una sera Rigoni Stern, che era stato nel bosco a fare la legna, trovò la casa chiusa, non c’era Ghirotti, né la poltrona, né l’automobile. Allora si sedette sotto le betulle a guardare la vacca sul Moor «come se lui fosse ancora lì».

 

E questo è vivere con la montagna.

 

intervista di Alberto Papuzzi Rivista della Montagna n.58, settembre 1983