Les Drus (1)

di Davide Scaricabarozzi

Pierre Raphoz Photo

Pierre Raphoz Photo

Ho il ricordo ben preciso della prima volta in cui vidi il Dru.

Bisognerebbe dire i Drus perché di fatto sono due, il Grand Dru 3.754 metri e suo fratello più piccolo, il Petit Dru, più basso di una ventina di metri, tra i due c’è la Breche des Dru che dal Montenvers non si nota ma che nelle vicende della montagna ha la sua importanza.

In pratica il Petit potrebbe essere considerato una semplice spalla del Grand, se il parametro di riferimento fosse l’altezza, ma come spesso accade non è necessariamente il più grande che prevale, e lo stesso è accaduto ai due fratelli di pietra poiché la storia ha disposto in questo modo.

I Drus sono una montagna che la natura ha voluto trasformare, nell’arco di un breve lasso di tempo, in un monumento a quello che non c’è più.

Le gigantesche frane, susseguitesi tra il 1997 e il 2012, hanno cancellato per sempre le grandi vie sul versante ovest e compromesso seriamente alcune sul versante nord.

Interi capitoli della storia dell’Alpinismo sono sparpagliati in milioni di sassi, assieme ad altri sassi, ai piedi della montagna.

 

Comunque lo ricordo benissimo quel giorno.

Ero un ragazzino di 10 anni appena compiuti in gita al Montenvers con la famiglia e gli immancabili amici di famiglia, in una giornata decisamente grigia di fine agosto, ma quella era la data prefissata da tempo e a casa mia quello che era deciso era deciso, punto e basta.

A Chamonix era tutto bagnato e il panorama inesistente; la coltre di nuvole era ben più bassa del Plan des Aiguilles, si vedeva giusto l’ultima lingua del ghiacciaio dei Bosson turrita da far paura, tutt’attorno solo nuvole impigliate ovunque.

Salimmo come da programma sul trenino a cremagliera e arrivammo al Montenvers in mezzo alla nebbia e sotto una fastidiosa pioggerella.

L’atmosfera era tristissima, potevamo benissimo essere a Milano nel mese di novembre se non fosse stato che l’aria era migliore e tratti compariva il serpentone della Mer de Glace che subito tornava a confondersi con il monotono grigio ambientale di default.

Facemmo l’obbligatoria visita alle grotte di ghiaccio e all’uscita l’atmosfera era tal quale, solo un po’ d’aria faceva muovere la nuvolaglia più rapidamente.

Risalendo dalle grotte verso il Montenvers la brezza prese a rinforzare tramutandosi presto in vento teso e gelato.

Fu sufficiente il tempo di consumare un veloce panino sotto la pensilina della cremagliera per trovarsi in un altro posto, un altro pianeta perché improvvisamente il Dru comparve da dietro le nuvole, quasi facendo rumore, letteralmente invase il paesaggio; altissimo, perfetto nella sua geometria pura e granitica.

Nessun’altra montagna mi ha mai più trasmesso questa sensazione di immane potenza.

 

L’Aig. du Dru è un’autentica meraviglia del Massiccio del Monte Bianco che richiama turisti e alpinisti a frotte praticamente da tutto il mondo.

Fondamentalmente il Dru è la propaggine più occidentale del complesso gruppo dell’Aig. Verte ed è la star di un panorama molto più ampio che comprende appunto il versante Nant Blanc dell’Aig. Verte, la Mer de Glace, i Charmoz-Grepon e sullo sfondo la muraglia della parete nord delle Grandes Jorasses.

Il punto di vista doc per ammirare questa montagna è indubbiamente il Montenvers, completamente soggiogato dal verticalissimo versante ovest del Petit Dru a forma di perfetto triangolo isoscele, alto circa un chilometro, composto da una teoria di diedri perfetti, fessure e pilastri messi lì invariabilmente per dare slancio e vertigine, come se ce ne fosse ancora bisogno, a questa struttura unica e inconfondibile.

Ed è ovviamente su questa parete che generazioni di fuoriclasse hanno tracciato itinerari che hanno segnato la storia dell’Alpinismo sulle Alpi Occidentali.

 

 

Semplificando al massimo la struttura di questa cima potremmo dire che presenta due versanti molto ben individualizzati: la larga parete nord che si affaccia sul ghiacciaio del Nant Blanc, caratterizzata più o meno a metà altezza, dalla Niche du Dru interamente occupata da un piccolo ghiacciaio pensile, e la parete ovest che appartiene interamente al Petit Dru.

In realtà ci sono anche i versanti sud e sud ovest del Grand e del Petit Dru, che fanno da sentinella al versante Charpoua.

Qui la montagna perde apparentemente tutto il suo slancio, la struttura diventa molto più complessa, alti pilastri meno monolitici ma ben individualizzati creano un anfiteatro granitico molto complicato.

Negli anni sono stati saliti itinerari di grande difficoltà su questo versante, che portano le firma dei grandi nomi dell’alpinismo classico e moderno ma soprattutto è da questa parte che si è svolta la prima salita del Grand Dru.

 

 

La prima salita del Grand Dru

 

Il Grand Dru venne salito per la prima volta il 12 settembre 1878 proprio dal versante Charpoua.

L’incredibile appicco che si vedeva dal Montenvers non venne nemmeno preso in considerazione, prima di tutto perché apparteneva al Petit, e si sa che il Grand all’epoca dell’Alpinismo di conquista faceva la differenza, ma a nessuno sano di mente sarebbe mai venuto l’idea di affrontare la montagna dal perfetto e precipite versante ovest: troppo alto, troppo verticale, troppo liscio, troppo tutto.

Impensabile solo immaginare di salire da quella parte.

Ancora una volta sono gli inglesi, come nel caso del Grepon o dell’Aig. Du Plan, accompagnati dalla fortissima Guida Alexander Burgener, che riescono a venire a capo di questa montagna.

Clinton Thomas Dent era uno stimato medico chirurgo inglese, grande appassionato di Alpinismo e determinato quanto basta; inoltre non gli mancavano le risorse economiche per potersi dedicare alla conquista delle più ambite cime alpine.

La prima salita della montagna richiese ben diciotto tentativi spalmati in non meno di un lustro per poter essere compiuta. Dent tralasciò ogni altra meta alpinistica per dedicarsi totalmente alla salita del Grand Dru, dal quale ne fu assolutamente ossessionato.

La notte del 12 settembre la cordata composta da Alexander Burgener, C. T. Dent, James Walker Hartley e il portatore Kaspar Maurer lasciano il serpentone ghiacciato della Mer de Glace per risalire le infinite morene che sostengono il ghiacciaio della Charpoua.

Giunti più o meno dove oggi si trova l’omonimo rifugio si fermano per fare una veloce colazione e dopo poco riprendono il cammino.

Risalgono il ghiacciaio piuttosto tormentato per arrivare sotto il ripido pendio di neve in direzione del Col du Dru, qui trovano il primo serio ostacolo: la crepaccia terminale che già in passato aveva respinto un paio di tentativi e che sbarra l’accesso al canale.

Burgener, con l’eloquio aulico che lo ha sempre contraddistinto, esordisce con un “Qui è come cercare di mungere una vacca senza tette!”

Nel più profondo silenzio la guida prova prima a destra, ma viene respinto dallo strapiombante labbro superiore; quindi va a sinistra, si fa tenere la corda ben tesa e scende di qualche metro nelle profondità del crepaccio fino al punto in cui un enorme blocco di ghiaccio funge da tappo, a questo punto riesce a raggiungere una rotta costola di rocce ghiacciate che gli consente di salire, non senza difficoltà, al di sopra della crepaccia, quindi con una breve ma scabrosa traversata arriva finalmente nel mezzo dello stretto canale.

La comitiva è ben presto riunita e l’ascensione può continuare.

Proseguono su rocce innevate, le difficoltà per il momento non sono particolarmente sostenute, inoltre conoscono bene questa parte della salita grazie ai precedenti tentativi.

Arrivati circa all’altezza del Col du Dru la faccenda si fa più seria: a fatica Burgener sale una placca liscia, poi uno stretto spigolo, un piccolo muro e ancora una placca, quindi arriva sul bordo destro di una stretta cengia (la plate-forme du pendule), la percorre fino alla sua estremità sinistra, sale ancora qualche metro per poi scendere tre o quattro metri fino a guadagnarne un’altra e finalmente poter far sosta.

Oggi questo tratto si supera con un pendolo e in genere la corda è già sul posto.

Proseguono lungo una teoria di camini verticali e freddi sino a raggiungere una zona di terrazze detritiche che consente loro di salire senza grosse difficoltà fin sotto uno stretto e verticale camino, che sembra sbucare in cresta al Dru.

L’ostacolo si presenta meno difficile del previsto e in breve sono sulle rocce miste a neve che conducono verso la cima del Grand Dru.

La cresta è un susseguirsi di gradoni innevati e dopo poco più di un’ora i quattro raggiungono la cima del Grand Dru.
Il sogno di Dent si era finalmente realizzato e ci lascia questo scritto:

 

Ci fermammo un momento, perché la cima distava ormai pochi metri soltanto, e Hartley che era davanti a me, ebbe la gentilezza di slegarsi per lasciarmi passare. Qualche secondo dopo mi aggrappavo alle ultime rocce sbriciolate e mi issavo sulla vetta del pendio.

Mi fermai per qualche istante, gli occhi fissi a Chamonix che si apriva ai miei piedi. Il sogno delle vacanze di cinque anni si era avverato: l’Aiguille du Dru era stata scalata. E’ possibile trovare, in tutto il mondo, uno sport che possa dare una gioia del genere? … Le gioie che danno le Alpi sopravvivono a lungo al momento della vittoria, sono qualcosa simile ad un investimento.

Rimane da sapere se può condividere o capire questa gioia chi non sia colui che tale investimento ha arrischiato. 

E’ una domanda che ancor oggi ci poniamo.

 

La prima salita del Petit Dru

Jean Charlet-Straton nasce il 18 febbraio 1840 ad Argentiere.

Questo piccolo villaggio ha dato i natali ad un’infinità di Charlet, diventati tutti invariabilmente guide di prestigio, il più noto dei quali è l’uomo dell’Aig. Verte: il grandissimo Armand Charlet.

Per sbarcare il lunario il giovanissimo Jean si trasferisce nella valle della Tarentaise, che corrisponde all’alta val d’Isere, dove fa il pastore per svariate stagioni e ha l’occasione di imparare il lavoro di carpentiere.

Nulla pare indirizzarlo alla carriera di guida, tant’è che ad Argentiere lo conoscono tutti come mastro carpentiere.

Questi sono gli anni in cui l’ascensione alla vetta del Monte Bianco va molto di moda, tra l’altro sono sempre di più le signore che ambiscono a questa prestigiosa cima, scegliendo di essere accompagnate dalle guide più prestigiose o, visto il numero di richieste, da quelle disponibili.

Sarà forse per il desiderio di stare accanto a una bella e facoltosa signora, che il vent’enne Jean decide di farsi ingaggiare come portatore e cominciare la carriera di Guida.

Nel 1865, in qualità di Guida, accompagna in vetta al Monte Bianco Mary Isabella Straton, inglese e più vecchia di lui di due anni che diventerà, nello stesso anno, sua moglie e con la quale riuscirà nella prima ascensione invernale al Monte Bianco tra il 30 e 31 gennaio 1876.

Indubbiamente Jean era un personaggio volitivo.

Per le Guide della Valle dell’Arve il successo degli inglesi sul Grand Dru aveva il sapore di un ennesimo “furto” fatto sulle montagne di casa propria.

Il Grand sarà Grand, ma il Petit appariva molto più difficile anche dal versante maggiormente abbordabile, e poi da Chamonix si vede solo la sua bellissima parete triangolare e il fratello maggiore manco si nota.

Jean aveva già capito da tempo che il prestigioso Petit Dru aveva una marcia in più, già nel 1876 fece un tentativo solitario molto spinto sulla montagna, riuscendo a salire molto in alto, ma le forti difficoltà che avrebbe ancora dovuto affrontare lo indussero a più miti propositi e ritornò sui suoi passi non senza difficoltà.

Il 28 agosto 1879, quasi un anno dopo la conquista del Grand Dru, Jean Charlet-Straton con i suoi colleghi guida Prosper Payot et Frederic Folliguet parte da Chamonix alle 4.30 del mattino in direzione del versante Charpoua della montagna e, dopo appena tre ore e mezza, sono all’attacco della parete.

Per onor del vero, Payot e Folliguet preferirebbero lasciar perdere e continuare per la via di Dent al Grand Dru, ma Charlet non ammette defezioni e alza la voce verso i due colleghi.

Il posto non è particolarmente sicuro, le pietre cadono continuamente e qualche colata di neve romba sul vicino canale che porta al Col du Dru.

Charlet non perde tempo, conosce il terreno per via del suo precedente tentativo solitario e infonde ai soci forza e coraggio.

Traversano lungamente su un sistema di cenge innevate, fino alla base di un sistema di couloirs che scendono dalla spalla dei Drus e che consente loro di raggiungere, senza eccessive difficoltà, la cresta delle Flammes de Pierre.

I componenti della cordata sono legati ad una distanza di circa otto metri uno dall’altro e si assicurano solo in caso di mauvais pas che presto non tarda a presentarsi.

Una larga fessura verticale tipica chamoniarda sbarra la via di salita, Payot e Folliguet si guardano perplessi finché si risolvono di domandare a Charlet se fosse certo che la via dovesse passare per forza da quella parte.

Per tutta risposta Charlet si incastra nella fessura, incastra pure il martello e poi anche la piccozza finché, nell’arco di pochi minuti, non si trova sul piccolo gradino soprastante.

“Anche quell’altra volta sono salito per di qua” è il suo laconico commento, solo che quell’altra volta era da solo.

Ora sono tutti e tre abbarbicati sul piccolo terrazzino e di fronte a loro si apre il più vertiginoso panorama che abbiano mai potuto rimirare: il profilo sconvolgente di un’immane pilastro di granito, quello che sessantasei anni più tardi diventerà il Pilier Bonatti.

Salgono ancora per settanta metri su rocce più semplici, sino a un ampio terrazzo, la salle à manger, e Charlet dice che il suo tentativo è terminato qui.

Al di sopra la parete cambia morfologia: diventa più verticale, profondi camini lisci e ghiacciati si alternano a muri compatti senza apparente via di uscita.

Il sole se ne sta andando ed è gioco forza fermarsi ed aspettare il nuovo giorno, il bivacco era stato messo in conto e la nottata trascorre nel migliore dei modi, l’unico neo è il pensiero dei camini ghiacciati sopra di loro.

 

L’indomani il tempo è splendido, la cordata riprende la salita cercando d’intuire quale potrebbe essere la chiave di volta della complessa parete sovrastante.

La partenza è per una rude fessura che termina su una buona piattaforma non lontana da un profondo couloir  che precipita verso il Pilier Bonatti, sopra di loro un camino intasato di ghiaccio sbarra la via di salita.

Charlet si ingaggia con decisione e, a colpi di piccozza, ripulisce la roccia fino al termine del camino che termina sotto uno strapiombo insuperabile.

L’unica possibilità è verso destra, dove una grossa scaglia poggia su un muro verticale e permette faticosamente di uscire da questo tratto.

A questo punto ancora placche e camini verticali si susseguono senza interruzione e il modo di procedere è ben descritto dallo stesso Charlet:

 

L’escalade, de ce point, devient de plus en plus ardue. (…) La roche devenait lisse et unie, les reliefs ou saillies auxquels on pouvait s’accrocher étaient de plus en plus rares. Monté sur les épaules de mes compagnons, je cherchais dans les fentes du rocher s’il m’était possible de trouver place, pour les mains ou pour les pieds.

Cet emplacement rencontré, mes pieds quittaient les épaules des guides pour s’adapter sur un piolet qui était haussé – si la longueur du piolet le permettait – jusqu’au point où je croyais pouvoir aborder. Une fois là, je fixais ma corde à une saillie de bloc en la gardant toujours soigneusement en mains, et les deux guides arrivaient jusqu’à moi en s’accrochant à la corde.

Quand les manches des piolets n’étaient pas suffisamment longs, nous étions contraints d’abandonner, pour en chercher d’autres, des emplacements qui ont bien souvent excité nos convoitises. La volonté d’arriver nous tenait ; nos mains, nos pieds s’incrustaient dans le roc vif, nous étions, suivant l’exacte expression de Folliguet, collés au rocher comme des sangsues.

Cet exercice de gymnastique se renouvela un certain nombre de fois, et je dois dire que si la défaillance et le découragement ne se sont point emparés de nous, c’est que j’avais clairement distingué qu’à une très faible distance de la dernière de ces escalades, se trouvait un tout petit névé qui nous permettait, sans autre sérieuse difficulté, d’atteindre la cime si ardemment désirée. C’est la réflexion que je fis aux deux guides qui m’accompagnaient, en leur faisant comprendre qu’une fois ce petit névé atteint, nous aurions mis notre vaillance à sa dernière épreuve et que la victoire était définitivement acquise.”

Una breve cresta scannellata conduce nel couloir sommitale e con un ultimo risalto roccioso la montagna finisce.

Il Petit Dru è sotto di loro e questa volta non c’è nessun inglese sulla cima.

A Chamonix i cannocchiali sono puntati sulla cima della montagna dal giorno prima e, allo sventolare della bandiera della Compagnia delle Guide sulla vetta del Petit Dru, una cannonata saluta la vittoria dei francesi sulla vetta di casa loro.

 

 La traversata dei Drus

Due cime ben distinte, ma facenti parte della stessa montagna e separate “soltanto” da un intaglio del tutto trascurabile, sono il perfetto obiettivo per una logica traversata, un concatenamento ante litteram, l’ideale prosieguo della storia dei Drus.

Una debita premessa è necessaria: è molto più facile la traversata dal Grand Dru al Petit Dru che non il percorso contrario.

Nel 1887 Emile Rey e François Simond si calarono dalla cima del Grand Dru, grazie all’aiuto di Guide chamoniarde che trovarono in vetta, alla sottostante Breche des Drus e da qui, per semplici rocce fino in vetta al Petit; non è ben chiaro da che parte scesero ma le cronache narrano l’evento.

Un paio di anni dopo Emile Rey questa volta con J-B. Bich e una giovane signorina inglese, Kate Richardson, sale in vetta al Petit Dru e riesce a raggiungere il Grand Dru grazie all’aiuto di una corda lanciata ancora una volta (!!) da alcune guide di Chamonix che si trovavano sulla cima.
Anche in questo caso l’episodio è un po’ lacunoso, tanto più che il dislivello dalla Breche alla vetta è di poco inferiore ai cento metri; in ogni caso la Guida Vallot (volume III) riporta la notizia con precisione.

Il 23 agosto 1901 E. Fontaine, accompagnato dai fratelli Jean e Joseph Ravanel, quest’ultimo detto il Rosso, riesce nella traversata dei Drus senza aiuto delle proverbiali Guide che pare stazionino spesso nei paraggi.
La via da loro seguita, oggi vene archiviata come variante Fontaine, si svolge interamente sul versante nord della montagna e presenta una scalata molto dura su rocce ghiacciate e difficili, l’esatto percorso non è ben chiaro e sembrerebbe che non conti nessuna ripetizione.

Fontaine non è soddisfatto dell’impresa, è salito sì in cima alla montagna, ma è stato costretto a traversare su un altro versante, lasciando irrisolto il problema vero e proprio: dalla Breche des Drus la parete, alta poco meno di cento metri, è interrotta nel terzo superiore da un grande strapiombo che apparentemente preclude la possibilità di salire.

Torna sulla montagna il 7 agosto del 1903 col solo scopo di esplorare con attenzione il versante sud, intuisce la possibilità di aggirare il grande strapiombo, che taglia completamente la parete, per il passaggio che ancor oggi viene chiamato della “zeta” a causa della tortuosità del percorso.

Con la convinzione di non avere rivali rientra a Chamonix ripromettendosi di tornare dopo qualche giorno accompagnato dal fortissimo Rosso.

Purtroppo su tutto il Massiccio si instaura una perturbazione che dura due settimane, le vacanze di Fontaine finiscono e si vede costretto a rientrare ad Ambroise, il piccolo centro sulla Loira, dove vive e lavora.

Quasi esattamente un mese più tardi, il 6 settembre, Etienne Giraud, Armand Comte e l’indomabile Joseph Ravanel  “dite le Rouge” si arrampicano lungo la Zeta soffiando, di fatto, la prima salita e Fontaine.

Oggi la traversata Petit-Grand Dru, classica ormai da quasi un secolo, è ancora una salita prestigiosa che richiede una rude e faticosa scalata interna con tratti di V grado, aperta senza l’utilizzo di alcun chiodo di assicurazione.
Da rifugio a rifugio occorrono almeno 12 ore e non è raro che qualche cordata sia costretta a dover bivaccare sulla via di discesa.

E’ la firma dei grandi protagonisti dell’Alpinismo di conquista.

 

Pierre Allain e la parete nord del Petit Dru 

Pierre Allain nasce a Grenoble nel 1904 e all’età di sei anni si trasferisce con la famiglia a Parigi.

Nel 1923 comincia a frequentare le montagne dell’Isere rivelando di possedere un talento naturale per l’arrampicata pura.

Sebbene in quegli anni la conquista di una cima rappresenti la massima, se non l’unica espressione di Alpinismo, la sua straordinaria modernità fa sì che egli anteponga la bellezza del gesto e la pura difficoltà alla retorica ridondante delle cime.

L’importante è arrampicare in modo pulito e totalmente in libera.

Parigi è lontana dalle montagne “vere” ma 90 kilometri a sud dalla capitale c’è la foresta di Fontainebleau, disseminata di blocchi di arenaria sui quali i giovani arrampicatori si muovono su difficoltà straordinarie: salgono spigoli, compiono traversate, concatenano i vari blocchi creando veri e propri circuiti dalle più disparate difficoltà e contrassegnati da colori diversi a seconda dell’impegno richiesto.

Questi giovani sono i Bleausards, fondatori nel 1924 del “Groupe de Bleau” che era succeduto al “Groupe des Rochassiers” nato nel 1907.

Il Groupe de Bleau è estremamente selettivo, per entrarvi a farne parte è necessario saper arrampicare BENE, una rigida gerarchia, fondata sulle effettive capacità ed anzianità, impone un percorso “accademico” che prevede diversi passaggi di grado.

A tal proposito Renè Desmaison, nel suo libro “La montagna a mani nude”, scrive:

Il principiante veniva definito “Pauvre Corniaud” (povero citrullo) e diventava quindi, man mano che progrediva “Corniaud”.
Da “Corniaud” diventava “Tendre espoir popofiste” (giovane speranza popofista), dal nome in gergo “popfe” della resina polverizzata che si tiene in sacchetti… Senza quella resina diventa impossibile superare certi passaggi… ”Da Tendre espoir popofiste”si diventava “Popofiste” e quindi “Lumière”.
I migliori erano “Les pures lumiere du rocher”.

Quello era il tempo di uomini come Pierre Allain, Poincenot, Guy Pulet, Renè Farlet e tanti altri… 

… Non dimenticherò mai il giorno in cui feci conoscenza con la roccia. Era lo spuntone più alto della foresta: la Dame Jeanne, quindici metri.
Uno scalatore, probabilmente alle prime armi come me, se ne stava appollaiato a cavallo di uno degli spigoli di quel masso: la cresta di Larchant. Dalla vetta lo assicurava il suo compagno. Gli sforzi inauditi che doveva compiere per salire pochi centimetri mi facevano girare la testa.. .Non sapevo ancora, non lo sospettavo neppure, che le rocce più difficili non sono necessariamente le più alte. 

Pierre Allain quindi, faceva parte dell’élite dell’arrampicata, le sue capacità erano indiscusse, ma il suo tirocinio nell’Isere aveva fatto di lui un valente alpinista su tutti i terreni.

La parete nord del Petit Dru è alta 850 metri, non troppo ripida nel primo terzo, prende slancio e verticalità degli altri due terzi.

Inoltre essendo esposta a nord è facile trovare verglas nelle fessure e nei camini, la parte alta invece è costantemente ghiacciata e il misto ripido prevale sulla roccia.

Il colonnello Ryan (quello dell’Aig. Du Plan), accompagnato dalle sue fedeli guide: i fratelli Franz e Josef Lochmatter, aveva compiuto un tentativo nel 1904, riuscendo a salire sino ad un centinaio di metri dalla Niche, gigantesca abside occupata da un piccolo ghiacciaio pensile; purtroppo le crescenti difficoltà e le condizioni della parete respinsero la cordata.

In ogni caso la porta d’accesso alla parte alta della montagna era stata svelata.

Passano molti anni senza che nessuno pensi a questa parete, l’élite dell’alpinismo degli anni trenta è concentrata sulle tre grandi pareti nord simbolo: Cervino, Eiger e Grandes Jorasses.

La nord del Petit Dru non è tra queste pur avendo tutti i requisiti per farne parte ma non va dimenticato che i Drus sono, tutto sommato, la propaggine più meridionale del massiccio dell’Aiguille Verte.

Una sorta di bella cima satellite.

Nel 1932 i ginevrini Andrè Roch e Robert Grèloz, specialisti del Massiccio del Monte Bianco e forti ghiacciatori, scendono in due giorni lungo la parete nord del Petit Dru.

Non è una discesa fatta tanto per fare ma di una vera e propria esplorazione in vista di un loro futuribile tentativo.

Parliamo di una discesa su una parete complicata, senza punti di riferimento e con il rischio di non essere più in grado di scendere o, ancor peggio, risalire.

Raymond Lambert, che troveremo giusto qui sotto, disse riguardo alla loro impresa:

“A mio avviso, un tentativo di ascensione su questa parete, richiede meno coraggio che la performance di Grèloz e Roch, per la buona ragione che in qualche modo si può sempre scendere quello che si è salito, il contrario invece non è sempre possibile”

Tra il primo e il 2 luglio del 1935, Raymond Lambert e la sua compagna Loulou Boulaz, riescono nella prima ripetizione dello sperone Croz alle Grandes Jorasses, assieme a Gervasutti e Chabod.

Qualche giorno dopo, Lambert con Dupont, Goth e Mussard attaccano la parete nord del Petit Dru.

Lambert è in gran forma, ma non si può dire lo stesso dei suoi compagni; la progressione è lentissima e sono costretti a bivaccare ancor prima di incontrare le vere difficoltà.

Il giorno seguente Lambert decide di formare un’unica cordata; l’arrampicata è decisamente fisica, un difficile e vetrato sul râteau de chèvre impegna a fondo Lambert.

I compagni ci mettono un’eternità a superare il passaggio e le ore scorrono impietosamente.

Un facile traverso a destra conduce su una piccola piattaforma, sopra la quale un liscio muro verticale, alto una decina di metri, è solcato da una buona fessura per le mani.

Lambert arrampica con un paio di pedule leggere, gli scarponi e i ramponi sono nello zaino di chi segue.

La fessura è impegnativa (oggi è data 5c), Lambert la scala di slancio senza alcuna protezione, al suo termine la parete è chiusa da due strapiombi che scoraggiano il forte scalatore.

Ma non desiste, riesce a superarli con estrema difficoltà sbuffando come un mantice, sa perfettamente che dopo la parete perde inclinazione per un paio di lunghezze di corda: è l’accesso alla rampa che porta in direzione della Niche.

Uscito dagli strapiombi, trova la rampa completamente ghiacciata.

Il terreno sarebbe un misto più divertente che difficile ma i compagni, sfiniti dalle ultime lunghezze verticali, non hanno più energie.

Si apprestano a un secondo bivacco e il giorno seguente Lambert decide di scendere.

È stato un errore strategico clamoroso: formare una cordata da quattro ha rallentato ulteriormente la già lentissima progressione ed è costata a Lambert la prima della via.

Mentre Lambert si ritirava dalla montagna, Pierre Allain e il suo compagno di sempre, Raymond Leininger, compivano la prima traversata completa delle Grandes Jorasses per la cresta Des Hirondelles fino al colle della Grandes Jorasses: una splendida e lunga cavalcata, difficile e complicata.

Il 31 luglio i due attaccano la nord del Petit Dru lungo il ben noto couloir Ryan-Lochmatter; vanno spediti come treni fino all’ostico râteau de chèvre, dove la parete sfodera le sue prime serie difese. L’ostacolo viene superato abbastanza in scioltezza nonostante presenti un’arrampicata decisamente faticosissima.

Anche la fessura Lambert è salita velocemente, e allo stesso modo i due strapiombi seguenti, entrambi indossano un paio di pedule a suola liscia ideate dallo stesso Allain.

La “varappe” modello Allain è stata in produzione per decenni e ha ispirato le moderne scarpette EB degli anni settanta-ottanta.

La cordata ha un equipaggiamento decisamente leggero: una corda di canapa da 7 millimetri di diametro lunga sessanta metri, sei moschettoni di ferro, cinque chiodi, una sola piccozza, niente ramponi, un martello ciascuno, materiale da bivacco e viveri per due giorni.

Questo fa riflettere sulle capacità di Allain e Leininger.

Superano la ghiacciata rampa che conduce alla Niche, ne percorrono il bordo inferiore in direzione di una zona di gradoni e camini, che formano il lato destro della Niche e che fanno da spartiacque tra il versante nord e quello ovest.

Arrivano su una prima piattaforma che borda il versante ovest, salgono un facile couloir di ghiaccio e blocchi fino a una seconda e comoda terrazza sempre sul bordo della parete ovest.

Qui Allain guarda giù dalla parete ovest e ne rimane impressionato, tant’è che nel suo libro “Alpinismo e competizione” scrive:

“… A destra, lo sguardo si tuffa negli abissi della parete ovest del Dru. Laggiù, la verticalità è spaventosa, interrotta soltanto di quando in quando da enormi strapiombi.
Immense pareti presentano, per cinquanta o cento metri, una superficie liscia e senza alcuna screpolatura, il perfetto esemplare dell’impossibile.
Qui l’alpinista perde i suoi diritti, solo dei pioli cementati nella roccia o qualche altro procedimento dello stesso genere gli possono essere di aiuto; ciò non sarebbe più alpinismo, ma lavoro in montagna.
Su questo piano, tutto è realizzabile, perfino una ferrovia interna a rampa elicoidale”.

Di certo non poteva immaginare che 17 anni più tardi quel vertiginoso abisso sarebbe stato salito senza pioli cementati nella roccia e senza alcuna galleria elicoidale.
Allain concepiva l’arrampicata solo come libera, chiodi e staffe erano distanti da lui un milione di anni luce e la sua incredibile carriera alpinistica ne è la dimostrazione.

La scalata prosegue con un susseguirsi di camini, blocchi e fessure.

Un difficile traverso di una quindicina di metri e un muro verticale conducono la cordata sul bordo superiore della Niche, le difficoltà non scendono mai sotto il V grado, con passi di mezzo grado più difficili.

Sopra ci sono due fessure parallele alte una trentina di metri, interrotte a metà da un pronunciato strapiombo e che continuano sotto forma di un vago diedro per un’altra decina di metri.

E’ quella che diventerà la fessura Allain, il tratto chiave di tutta la salita, il passaggio più difficile della catena del Monte Bianco per molti anni, un tiro di corda difficilissimo, ancor oggi dato 6a e superato da Allain con l’utilizzo di soli 4 chiodi esclusivamente d’assicurazione.

Solo 5 anni più tardi, in occasione della sesta ripetizione della via, Felix Martinetti scopre, leggermente a destra della fessura Allain, un’altra fessura dalle difficoltà sensibilmente inferiori, fessura che ha reso questa via meno selettiva e via via più ripetuta, sino a farla diventare una classica di grande impegno.

Allain era abituato alle grandi difficoltà, le due fessure parallele erano la via ideale da seguire: nette, pulite ed esteticamente perfette, per quale ragione avrebbe dovuto cercare una via più semplice?

Anche sulla parete nord delle Grandes Jorasses il grande Cassin superò una fessura strapiombante, gamba destra-braccio destro, durissima e improteggibile nel primo terzo della parete.

Bastava che traversasse qualche metro a sinistra per trovare un diedro molto più semplice e molto meno pericoloso, forse è ad appannaggio dei fortissimi la facoltà di non cercare il facile o magari di non vederlo.
Walter Bonatti, quando diciottenne ripeté la via di Cassin alle Grandes Jorasses, salì la stessa fessura e ne uscì sfinito e tremante.

Quella, sembrerebbe, fu l’unica ripetizione: i forti si somigliano tutti.

La giornata volge al termine e non resta che prepararsi a un bivacco piuttosto confortevole, rimandando la salita della fessura al giorno seguente dopo un meritato riposo.

Il mattino seguente la partenza non è così di buon ora, la roccia è freddissima e Allain preferisce cominciare la scalata quando l’aria si fa più tiepida.

Le difficoltà sono subito fortissime, per progredire Allain mette in campo tutta la sua abilità di puro arrampicatore salendo ora sulla fessura di sinistra e ora su quella a destra, con metodo e testa, distribuendo lo sforzo e cercando nel difficile di riposarsi.

Nei primi metri non si protegge, dice che non ha tempo per fermarsi, finalmente pianta un buon chiodo e prosegue fino dove le fessure sono chiuse da uno strapiombo. Più o meno a metà altezza pianta un altro chiodo e si avvita letteralmente nelle fessure per trovare l’incastro migliore.

Esce dallo strapiombo, di fessura ora ce n’è una sola sul fondo di un vago diedro verticale; le difficoltà non accennano a diminuire, riesce a riposarsi e a piantare altri due chiodi sfruttando piccoli appoggi sulla faccia sinistra del diedro.

All’uscita la verticalità diminuisce e dei relativamente facili gradini consentono di raggiungere un ottimo punto di sosta.

Con la salita di questa fessura, il limite della pura difficoltà su roccia nel Massiccio venne abbondantemente spostato in avanti.

Su nessuna delle vie fino ad allora compiute vennero mai superati passaggi così duri.

La scalata continua su terreno tecnicamente più semplice ma sempre piuttosto faticoso, un susseguirsi di scaglie verticali da superare in opposizione e una fessura con l’uscita strapiombante ma per fortuna provvista di ottimi appigli all’uscita, fino ad arrivare su una discreta cengia innevata.

Da questo punto sarebbe possibile proseguire direttamente fino alla spalla sud-ovest della montagna e da lì continuare più facilmente per la via normale.

Allain non è uomo alla ricerca di scorciatoie, la sua via deve arrivare in cima al Petit Dru e non sulla spalla.

Comincia a traversare verso sinistra in pieno versante nord, da questo punto, a parte eccezionali condizioni, la salita diventa mista: roccia, ghiaccio neve e verglas, sempre molto difficile data la forte inclinazione della parete, con passaggi molto impegnativi scarsamente proteggibili.

È un susseguirsi di camini ghiacciati e colatoi fino a una prima cengia di quarzo a 150 metri dalla vetta.

Ancora tre lunghezze analoghe portano alla seconda cengia di quarzo dove un tunnel naturale (grotte à cristaux) mette in comunicazione il versante nord con quello sud.

Ancora una volta Allain non cede alla tentazione di rendersi la vita semplice, sale gli ultimi settanta metri per un camino ghiacciato che diventa via via meno inclinato fino alla vetta del petit Dru.

E’ il tardo pomeriggio del primo agosto 1935.

Un’impresa straordinaria, portata a termine con uno stile impeccabile a testimonianza del valore di un arrampicatore del calibro di Pierre Allain.

dru-nordforweb

Parete nord: 1. Via dei polacchi (tracciato approssimativo); 2. Via Lesueur; 3. Via delle Guide; 4. Allain-Leininger. Foto di Frédéric Bunoz

La via venne ripetuta l’anno seguente da Lambert e Boulaz con un bivacco e, sempre con un bivacco, la seconda ripetizione nel 1937 ad opera di Giusto Gervasutti e Lucien Devies.

Per la prima invernale devono passare 29 anni, in due giorni (8 e 9 gennaio 1964) le guide Gèrard Devouassoux, Yvon Masino e George Payot vengono a capo della via.

La prima solitaria è di Daniel Monaci il 17 e 18 agosto 1971 ed è interessante notare come la prima solitaria di questa parete sia successiva a quella della parete ovest, tecnicamente più difficile, sulla stessa montagna.

 Nel corso degli anni altre vie sono state aperte su questo versante, alcune terminano sul petit Dru e altre sul Grand Dru.

Nessuna di queste ha mai goduto di grande popolarità, le difficoltà sempre elevate, le condizioni proibitive e la roccia a tratti mediocre scoraggiano le eventuali ripetizioni.

Tra queste le più “conosciute” sono: la via dei fratelli Lesueur al Grand Dru del 1952, la via delle Guide (Feuillarde-Jager-Paris-Seigneur) sul Petit Dru aperta in una settimana nel febbraio del 1967 e per ultima c’è una quasi sconosciuta e sicuramente mai ripetuta via dei Polacchi salita proprio da J. Kukuzcka e W. Kurtiyka in sei giorni nell’estate del 1974.

druforweb1

1) Diretta americana Hamming-Robbins 2) Classica Bèrnardini-Dagory e Magnone 3) Direttissima americana Harling-Robbins 4) Direttissima francese Bruel-Profit e Sachetat 5) Pilier Bonatti. Foto di Antonio Passaseo 

Bibliografia:

  • Lucien Devies et Pierre Henry  “La Chaìne du Mont Blanc” vol. 3 Arthaud
  • Andrè Roche  “Grandi Imprese sul Monte Bianco”  dall’Oglio
  • Gian Piero Motti  “La Storia dell’Alpinismo” vol. 1 e 2  Vivalda
  • Gaston Rebuffat  “Monte Bianco le 100 più belle ascensioni”  Zanichelli
  • François Damilano “Niege, glace et mixte” vol. 1 JMEditions
  • Roland Boyer “Les noms de lieux de la règion du Mont Blanc” èditions Mythra
  • Giovanni Bassanini “Monte Bianco le classiche” Vivalda
  • Giovanni Bassanini e Guido Azzalea “Monte Bianco anni 90”  Vivalda
  • Michel Piola “Mont Blanc” vol. 2 Glènat
  • Renè Desmaison “La montagna a mani nude” dall’Oglio
  • Renè Desmaison “Professionista del vuoto” dall’Oglio
  • Walter Bonatti “Le mie montagne”  Zanichelli
  • Walter Bonatti “I giorni grandi”  Zanichelli

Altre fonti in rete:

  • Alpinisme.com  “Première ascension du Petit Dru”

Testo e ricerche storiche di Davide Scaricabarozzi.
Foto di Pierre Raphoz, Frédéric Bunoz e Antonio Passaseo:
https://ssl.panoramio.com/user/503334

Tracciati a cura di Alpine Sketches.
© AlpineSketches 2015