Ricordo di Angelo

di Giancarlo Bregani (1930-1987)

Angelo_Vanelli

9 ottobre 1957
Sul quotidiano «La Prealpina» scrivevo un articolo, principiando con queste frasi:

«È ormai trascorso un mese dal giorno in cui giunse la notizia che la guida alpina Angelo Vanelli non aveva fatto ritorno a Macugnaga da una ascensione al Monte Rosa. Tra le nebbie e la spaventosa bufera della Punta Dufour si era compiuto un destino per lungo tempo avverso. Angelo Vanelli è scomparso silenziosamente, lasciando dietro di sé una infinita serie di congetture, così come silenziosamente era vissuto, aprendosi la strada, con stupenda perseveranza, verso i vertici della scala gerarchica dell’alpinismo nazionale».

Sono passi ormai dimenticati quelli di tanti anni fa, nella tremenda settimana che andava dall’8 settembre, domenica, quando Angelo e Sergio salivano la parete Est del Monte Rosa, al venerdì 13 successivo, quando tutte le squadre di soccorso, accecate e frastornate dalla terribile bufera mai sopita, decisero di sospendere definitivamente le ricerche. Ma se sono passi dimenticati ormai per molti non lo sono certamente per la madre di Angelo, per i genitori di Sergio Ferrario, e per me.

Da anni ed anni, da quei giorni atroci, io mi domando: «come, perché?». Devo domandarmelo, tentando invano di trovare una risposta che mi aiuti anche a ricomporre nella sua integrità la mia stessa figura di alpinista. Non sono passi dimenticati per me, anche per poter parlare di Lui ai molti che, di fronte a sciagure, a lutti del genere, dopo il primo attimo di compassione generica per una giovane vita spentasi, concludono la loro breve umana pietà dicendo: «in fin dei conti se l’è cercata». Tra questi vanno annoverati anche molti alpinisti del «vecchio stampo», quelli del tempo eroico, rimasti ancorati all’alpenstock e «all’asciolvere» di cara pionieristica memoria.

Chi era, in realtà, Angelo? Chi era questo tarchiato giovanotto, dagli occhi tristi, dalla fronte sempre aggrottata, al quale il pure scomparso Andrea Oggioni dedicò un «Nevado» nelle Ande? Angelo, non importano la data ed il luogo di nascita, era un ragazzo caparbio, introverso, forse anche timido, spesso scontroso, mai diplomatico. Dentro di sé sentiva confusamente di possedere le qualità per fare qualcosa che lo elevasse al di fuori della anonima massa, non per desiderio di celebrità, ma per poter ridurre, restringere, il numero dei suoi pari. Dentro di lui ribolliva sempre il calderone del nuovo, del diverso, del particolare. Di professione, ufficialmente, magazziniere di un grosso cotonificio gallaratese. A tempo perso, e alla ricerca della famosa «via», corrispondente di strani giornali, aspirante guardia daziaria, organizzatore turistico, e così via. Tutto questo fino al tardo autunno 1952. Quando scoprì la montagna, poco meno che ventenne. Fu l’amore a prima vista. La rivelazione. Il destino. Lo conobbi a questo punto.

Approfondimmo la conoscenza la primavera successiva, in occasione di un corso di alpinismo. Al termine di quel corso, Angelo si faceva le sue brave vie di 4° e 5° in Grigna, da «primo». Aveva quindi una naturale predisposizione che lo facilitava. Da allora, fino alla mia partenza per il servizio militare, anche durante il suo periodo di naja, facemmo cordata fissa. Nel regno del nostro Monte Disgrazia trovammo entrambi le migliori soddisfazioni. In quello stesso anno 1953 arrampicammo, pressoché in giornate consecutive, sulla cresta Orientale, sulla via Gugelloni, sulla via Schenatti del Disgrazia. Compimmo la traversata dei Corni Bruciati, da NE a SO, quella del Cassandra-Giumellini-Rachele. Ci trasferimmo in Val Màsino e scalammo la Punta Sertori, la cresta Sud del Badile, la Punta Torelli, il Porcellizzo. Nel 1954, dopo una puntata all’Alpe Devero per lo spigolo Est della Punta Rossa, in Valsesia per la Cresta del Soldato alla Giordani, tornammo a «casa nostra», come chiamavano affettuosamente la Val Malenco, e ci impegnammo sulla «Corda Molla» del Disgrazia, sulla Nord del Cassandra, sulla cresta SO del Monte Rosso di Scerscen e nella traversata del Pizzo Palù, da Est a Ovest.

Per entrambi, queste salite erano vere e proprie scappate, dovendo egli eludere la sorveglianza dei superiori militari, in occasione di brevi permessi, io quella dei miei genitori ancora convinti che i miei soggiorni alpini fossero esclusivamente a base di distensive passeggiate. Nel 1955, dopo un intenso allenamento in Grignetta e dopo alcune ascensioni di buon impegno, culminammo la stagione con l’apertura prima assoluta alla Direttissima Sud del Disgrazia, lungo il pilastro centrale. Ciò che ci accadde in quella famosa e drammatica domenica d’agosto, di grida e di fulmini, è ormai storia nota. E se non lo è ne scriverò a breve. Fu il primo avvertimento del destino per Angelo, il più colpito dei due. Da quel giorno egli sarà il bersaglio prediletto della più accanita malasorte. L’anno successivo, 1956, fummo insieme per poco tempo, in quanto Angelo, preso il brevetto di portatore, nel mese di maggio, fu aggregato alla Scuola d’Alta Montagna «A. Parravicini» come aiuto-istruttore. In agosto fece base a Chiareggio.

Il mattino del giorno 12, una giornata stupenda, ci incontrammo in vetta al Pizzo Cassandra, lui con una cordata di allievi, io con amici. Eravamo saliti lui da Nord, io da Sud. Fu un incontro affettuoso, quasi di due amici che da lungo tempo non si rivedono e che si incontrano in una situazione diversa rispetto all’abituale. La stessa corda, infatti, non ci univa questa volta, su una vetta. Scendemmo assieme alla «Bosio» e quindi, il giorno appresso, lui tornò alla Scuola con gli allievi, rifacendo il percorso in senso inverso. Ci demmo appuntamento a Sondrio, per la domenica dopo Ferragosto, non appena completati ed esauriti i suoi impegni. Il giorno di Ferragosto chiusi il mio soggiorno alpestre e me ne tornai a Sondrio, presso i miei parenti. Passai l’intero pomeriggio all’Ospedale in visita ad un amico convalescente per una difficile operazione. Ne uscii molto tardi, la sera, senza sapere che, di lì a poche ore, sarei dovuto ritornarvi in circostanze ben più drammatiche.  Fui infatti svegliato all’alba, poco dopo le cinque, dallo squillo del telefono. Chiamavano dall’Ospedale, dove era stato appena ricoverato un alpinista, gravissimo, in procinto di entrare in sala operatoria. Era Angelo. La sua sfortuna aveva nuovamente colpito.

Ciò che sto per raccontare può ben dimostrare come era in realtà Angelo, può dire del suo coraggio, della sua forza fisica e morale, delle sue capacità alpinistiche ed umane, anche ai suoi molti gratuiti postumi detrattori. Proprio quel 15 agosto aveva scalato una difficile via sulla cima di Val Bona, tra la Cima di Vazzeda e il Monte del Forno, assieme ad un giovane di Sondrio, certo Bonini. Poche decine di metri sotto la vetta, laddove le difficoltà cessavano e non restavano altro che facili roccette, i due si fermarono per mangiare. Era questa una abitudine di Angelo: rinviare l’arrivo in vetta quando il difficile era fatto. Al momento di ripartire, messo in ordine il materiale e le corde, si riattaccò alla roccia e prese a salire. Dalla parete si staccarono alcuni sassi. Disse allora a Bonini di spostarsi, di togliersi dalla traiettoria dei sassi. Ridiscese breve tratto, fece pulizia dei detriti e risalì.

Come fu nuovamente sull’appiglio, sentì l’intera lastra di roccia muoversi sotto di sé e trascinarlo verso il basso. Si buttò di scatto fuori dalla corsa del masso e trovò altri appigli solidi cui aggrapparsi. Gli appigli erano sì solidi, ma non lo era l’enorme blocco di roccia che li conteneva. Angelo venne giù con l’intero blocco, diverse tonnellate, per una decina di metri e tentò di svincolarsi, al momento del- !’impatto sul terrazzino dove poc’anzi aveva sostato. Vi riuscì in parte, poiché un angolo del masso gli agganciò il piede destro, lo frantumò, tranciò le corde, si spezzò in mille frammenti e finì la sua corsa sulle ghiaie dopo trecento metri di volo.

Angelo si blocca sul terrazzino. Non perde i sensi. Vede il suo piede pendolare, appeso solo per pochi brandelli di carne e per il tendine di Achille. L’osso della tibia sporge per centimetri attraverso il calzettone. Perde sangue a fiotti regolari, secondo le pulsazioni del cuore ed il rivolo comincia a formare pozza sull’esigua lista di roccia, aprendosi poi la strada verso il baratro. Bonini è poco più

in su, fermo, terrorizzato, al suo posto di sosta, le corde tranciate ancora in mano. Angelo si getta sul suo piede ferito, riesce a togliersi lo scarpone, a pulirsi la testa della tibia dalla terra a legarsi un giro di corda attorno alla coscia e stringere per fermare l’emorragia, mentre urla, urla a perdifiato: «Bonini, vai in vetta, vai in vetta e chiama aiuto!, chiama!!, chiama!!! ».  Dall’altra parte della montagna, mille metri più in basso, s’apre la dolce valle di Chiareggio e laggiù, tra gli alberghi affollati di turisti ferragostani, qualcuno potrà udire l’appello disperato.

Angelo resta solo, apre e stringe il laccio emostatico improvvisato, regolarmente. Ad ogni minuto che passa, sbianca sempre più sotto la patina rugginosa del sole. Ma è sempre lucido, sveglio, vigile, attento ad ogni minimo particolare. S’accorge che laggiù, alla base della parete, sta passando un gruppo di quattro persone, alpinisti senz’altro poiché ne distingue l’attrezzatura. Si dirigono verso la Svizzera. Li chiama, disperatamente, invoca aiuto, invoca anche solamente una promessa d’aiuto. I quattro alzano la testa, confabulano, poi riprendono la marcia. Due ore dopo non saranno più in vista e di loro nessuno avrà notizie. Ma a Chiareggio qualcuno ha udito e compreso.

D’altra parte, il fragore della frana provocata dalla caduta del masso aveva già messo in allarme molte persone. Purtroppo le guide sono tutte fuori essendo questa una delle poche giornate dell’anno in cui si riesce a raggranellare soldi. Pochi gli alpinisti validi in valle. Anche la Scuola Parravicini è in vacanza, quel giorno. Si muove comunque una cordata di soccorso, c’è un medico, in testa la guida Oreste Lenatti che ha lasciato bruciare sul fuoco le bistecche per i clienti del suo albergo. Alle diciassette, cinque ore dopo l’incidente, superata la via normale, sono tutti lì, accanto ad Angelo.

Le prime cure affrettate, qualche iniezione. Poi sulle spalle di Oreste affronta la discesa. Angelo non si limita a non svenire. No. Non può. Egli è un uomo e alpinista. Egli ritiene che solo la frattura dei piede gli abbia impedito di camminare, ma ciò non è giustificazione valida per alleviare la fatica ed il travaglio delle persone che egli ha scomodato. Si aiuta con le mani, manovra le corde, consiglia Oreste, incita Bonini che stenta a riprendersi dallo choc, ma si comporta egualmente bene. La lunga parete finalmente termina. Ai suoi piedi, sull’erba, c’è una barella che alcuni pastori hanno portato fin lì. Finalmente Angelo può distendersi. Ma neppure ora si addormenta o si lascia andare. Tutto deve funzionare a modo suo.  A Chiareggio lo caricano, e sono le due di notte, su una vettura: rifiuta di disturbare oltre, di esser accompagnato dal medico. Gli basta la compagnia di Bonini, fino a Sondrio. Alle cinque del mattino del 16 agosto è finalmente in ospedale. Sono trascorse diciassette ore dal momento in cui il masso gli ha maciullato il piede.

Prima di entrare in sala operatoria fa in tempo a salutarmi. Poi, al chirurgo che lo ha informato della probabilità di amputare, dice di guardarsene bene dal farlo. «Se perdo il piede, non potrò più andare in montagna, e sarebbe come perdere la vita. Preferisco rischiare di morire del tutto, ma tenermi il piede». Il primario accenna alla cancrena, poi scuote la testa e gli promette che farà quanto possibile per tenere l’arto attaccato. L’anestesia, penetrando nel suo sangue, raggiungendo i centri nervosi, lo piomba finalmente nell’incoscienza e nel sonno.

La diagnosi suona pressappoco così: “FRATTURA E SPAPPOLAMENTO DEL MALLEOLO, DELL’ASTRAGALO, DELLA ARTICOLAZIONE MEDIOTARSICA; LACERAZIONE DEI LEGAMENTI; AMPIA FERITA, ECCETERA… “ Non saranno questi i termini medici esatti, ma la sostanza è qui. Angelo, a giudizio dei sanitari, ha novanta probabilità su cento di perdere il piede, a meno che non abbia una volontà indomabile, un fisico di ferro, una fortuna prodigiosa.

Al termine dell’intervento, consistito nel tentativo di rimettere assieme quel povero arto, il chirurgo mi dice: «Se lei è credente, preghi, ma entro domani sera dovrò amputare al ginocchio, sempre che non succeda un miracolo». Da quel giorno sono passati tre mesi. Angelo è stato trasportato a casa sua, a Gallarate. Gli hanno appena tolto il gesso, applicatogli dopo che s’erano rimarginate le ferite. Lo vado a trovare. È in piedi, il viso rivolto verso la parete della sua camera, a pochi centimetri di distanza. Si appoggia con le mani al muro e flette le ginocchia fino a portarle a contatto dell’intonaco, senza sollevare i calcagni da terra. Suda abbondantemente. Stringe i denti per il dolore. Torna eretto.

Si volta, mi vede e mi dice, subito: «Ciao, guarda, ho già guadagnato un centimetro di distanza dal muro. Quando con le punte dei piedi sarò arrivato a questo segno potrà riprendere ad arrampicare».  Il miracolo era avvenuto. Malgrado l’insufficiente apporto di sangue all’arto, il piede non era andato in cancrena, non s’era sviluppata alcuna infezione. La grande ferita s’era rimarginata. Le ossa s’erano saldate. L’inverno successivo farà lunghe marce nella neve fresca, appoggiandosi ai bastoni da sci. In discesa il piede gli duole terribilmente. Insiste.

A marzo è nuovamente in Grignetta. «Fa» la Segantini per avvio. Poi va sul Fungo, sull’Angelina, sul Cecilia. Ripete i Magnaghi, la Comici al Nibbio, la Boga alla Medale. Arrampica come prima. Solo la discesa lo fa penare. Ad aprile, dopo gli esami, è guida alpina. A maggio ritorna alla Scuola «Parravicini». A giugno organizza traversate lungo il «Sentiero Roma», dalla «Gianetti» al Badile fino alla «Ponti» al Disgrazia. A luglio perde improvvisamente e tragicamente suo padre.

Vado ad accoglierlo alla stazione, arriva dalla Valtellina ancora vestito da montagna. Piange abbracciato a me, poi si avvia verso casa, zoppicando leggermente. In agosto, essendo io a casa in licenza di convalescenza dopo venti giorni di ospedale militare, ho l’occasione di vederlo quando torna a Gallarate per brevi visite alla madre. Poi, dopo la metà del mese, lo perdo di vista. Vado ad Alagna per rimettermi un po’ in sesto. So che è in contatto con Oggioni, sento parlare di spedizione nelle Ande peruviane ma non ho, ovviamente, notizie precise. A Sondrio lo hanno accolto tra i membri del Gruppo «Perego» della locale sezione del C.A.I., ragazzi fortissimi e molto bravi. C’è Antonucci, Bettini, c’è Speckenhauser che diverrà poi accademico.

In agosto svolge una intensa attività, specie nel gruppo del Pizzo Badile. Sento che va fortissimo. Frattanto gli amici cercano per sua madre e lui un Rifugio da gestire. Potrà così stare sempre in montagna. È la sua vita.  Finalmente, ai primi di settembre, me lo vedo arrivare a casa mia. Mi chiede se sono disposto ad impartirgli lezioni di inglese. Ne sono lieto. Incominceremo lunedì prossimo. Tra l’altro sarà il giorno del mio compleanno.

«Cosa fai domenica?».

«Niente di particolarmente speciale. Vorrei solo fare una bella salita, sai, per allenamento alle Ande! ».

«Allora ci vai ?».

«Non so ancora. Più sì che no . Ma devo tenermi bene in forma».

«Stai attento».

«Non dubitare».

«Ci vediamo lunedì sera…».

Non ci siamo visti mai più.

Quella stessa domenica io riprendo ad arrampicare, con un altro caro amico mio, Alberto Bonomi. Andiamo in Devero, facciamo lo spigolo della Rossa. Andiamo su molto bene, Alberto è bravo e facciamo presto ad arrivare in vetta. Il mattino, limpidissimo, si vela di nebbie improvvise verso mezzogiorno. In vetta siamo in bufera. Stentiamo perfino a scendere, sbagliamo strada due volte a causa della nebbia, siamo costretti a risalire spesso per riprendere il filo di cresta. Arriviamo. Non sono per niente soddisfatto della giornata, non per la scalata, anzi, ma per qualcosa che non so definire. Sarà, probabile, la scarsità di allenamento. Il lunedì Angelo non si fa vivo a casa mia. Lo mando cordialmente e benevolmente a quel paese. Come al solito, si sarà dimenticato o avrà cambiato idea; ma mi bevo lo spumante da solo. Non sono uscito di casa in tutto il giorno. Nessuno mi telefona.

Il martedì la radio annuncia che due alpinisti gallaratesi sono dispersi sulla Est del Monte Rosa. Corro a perdifiato a casa sua. Il sospetto diventa realtà. È lui, con Sergio Ferrario di Legnano, che non conosco. Ciò che furono i terribili giorni fino al venerdì, quando le ricerche, ormai senza speranza, furono sospese definitivamente, mi è difficile dirlo. Di quale violenza fosse la tormenta che, levatasi quando essi erano ad un centinaio di metri dalla vetta, all’una del pomeriggio, e che per sei giorni continuò terribile ed immutata, è impossibile descrivere neppure ricorrendo al più vieto lirismo.  Ma è facile immaginare ciò che fu il mio chiodo fisso per tutti i mesi e gli anni a seguire: «Perché? Come? Dove? Quando?». Congetture, discussioni, tentativi onesti di trovare una spiegazione che non fosse quella malevole dei suoi invidiosi detrattori, per la gran parte vecchi barbogi che avevano fatto il loro tempo come alpinisti e che, non essendo mai andati oltre qualche comoda salita dalla fama usurpata, non tolleravano di vedersi soppiantati e superati dalla maggior capacità dei giovani. Specie quando questi giovani si facevano una meritata fama.

Attorno a quei corpi mai ritrovati e per sempre celati tra le pieghe della immensa montagna, infinite le ipotesi. È forse caduto dalle rocce? Forse, ma non credo. È uscito in vetta, col suo compagno, tra la fumigante violenza della tormenta che squassava la montagna per poi perire lungo la discesa verso Zermatt? Può essere.

È rimasto lassù per una, due o più notti, cedendo infine al dolce abbandono dell’assideramento, a causa di un malessere, di un incidente? Oppure, abbruttito, è finito in qualche crepaccio del Gornergletcher? Domande, domande, domande, senza alcuna risposta. Questo mi angustiò per mesi. Questo rimuginai per tutto l’inverno appresso, senza potermi andare a sfogare in montagna, dove forse avrei trovato pace e soluzione. Questo, ed il continuo battagliare negli stessi retrivi ambienti della cittadina in cui vivevo, per difenderne la memoria, furono certamente cause della rottura che avvenne dentro di me. Me ne accorsi l’estate successiva, e questa è un’altra storia.

Ma già allora intuivo che la mia carriera alpinistica, se di carriera si poteva parlare, ed ammesso che essa sarebbe sfociata in qualcosa di ben più importante di quanto avevo fatto finora, stava per chiudersi, si era già chiusa quando si chiusero gli occhi dell’Amico in un luogo del Monte Rosa ignoto a noi, ma ben conosciuto a Lui ed all’Onnipotente. Era la assoluta fiducia nella sua forza, nella sua sicurezza, nella sua prudenza che solo a pochi si svelava per tale, e solamente in montagna, che mi aveva sempre sorretto e che aveva fatto, della nostra, una cordata tra le più affiatate. Solo in montagna si poteva comprendere che ciò che diceva era vero, che non era eccesso di presunzione il suo dire quando avviava una discussione. Se Lui era caduto …

Certo, questa è debolezza. Molti grandi alpinisti hanno perso l’amico più caro, spesso l’hanno addirittura visto morire sotto i propri occhi. Ma due cose sono vere: io non sono un «grande» alpinista. lo non so «come» è morto Angelo. Sapevo che, davanti a me, in ogni arrampicata, con qualsiasi nuovo compagno, avrei sempre visto il suo ciuffo biondo, i suoi occhi azzurri e tristi. Non avremmo mai più arrampicato assieme, discusso, mangiato, riposato assieme. Mi torna sempre alla mente ciò che disse a mia madre in risposta ai suoi velati rimproveri ed alle esortazioni di prudenza, anzi di… rinuncia. Eravamo all’ epoca della tragedia di Maggioni e Cazzaniga al Cervino. Sono parole che mi risuonano sempre all’orecchio, quando dalla pianura lombarda o da qualsiasi altro punto, vedo rizzarsi la mole possente del Monte Rosa.

«Mi perdoni signora ciò che le dirò. Ma io “so” che morirò giovane, lo sento dentro di me. Allora, se così deve essere, piuttosto che in un letto, o sotto un’auto, o in qualche altro modo, che sia in montagna e che non mi si trovi più. Quale migliore monumento funebre potrei trovare?».

Ovunque tu sia, amico Angelo, ovunque e comunque tu sia morto, datti pace. Qui, su queste pagine, se esse mai vedranno la luce al di fuori del mio studio, ho cercato di renderti giustizia e di ricordati com’eri in realtà. Per chi ti volle bene e per chi non te ne volle. Temevi di non essere mai giudicato altro che un sognatore. Invece hai vissuto da Uomo. E ne hai dato la prova più volte. Su queste pagine ho rivissuto gli anni in cui abbiamo camminato per i nostri Monti e per un poco, almeno, siamo stati nuovamente assieme.

È stato detto: «Carrel n’est pas tombé. Il est mort».

Così sia anche per te.

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Da “C’è sempre per ognuno una Montagna” di Giancarlo Bregani – Tamari Editore 1969