Ossola Bella e Buona

“Ossola Bella e Buona”, il nuovo libro di Alberto Paleari e Livia Olivelli, non è una semplice guida di escursioni: è un viaggio a piedi alla scoperta di un territorio montano. E’ il racconto di due alpinisti che decidono per una volta di non salire alcuna cima ma di partire alla scoperta degli alpeggi che costellano le diversi valli e le storie di chi li abita e di chi resiste nella difficile passione-professione dell’economia agricola montana.

E’ un racconto fatto à la mode dei viaggiatori ottocenteschi, un reportage di cose viste, storie ascoltate, cibi mangiati e vini bevuti.  Un libro che fa venir voglia di conoscere questo lembo di Piemonte meno conosciuto di quanto meriterebbe. Dagli antichi alpeggi del Passo del Sempione ai pascoli della Val Formazza patria del formaggio Bettelmatt; dalla severa e remota valle Antrona ai vigneti dell’area attorno a Domodossola che stanno conoscendo una nuova primavera: tante escursioni per cercare di entrare nell’anima e nelle pieghe di un territorio.

L’estratto che segue è il racconto di una lezione di storia fatta in Val Vigezzo, nel teatro del rastrellamento del 1944 a opera di circa quindicimila tedeschi e fascisti contro poche centinaia di partigiani. È anche il racconto della salita a Scaredi, uno degli alpeggi più belli della Val Grande, all’ombra della Laurasca e con lo sguardo al Monte Rosa.

Ragazzi del Berchet a Scaredi. Sullo sfondo la Laurasca

Ragazzi del Berchet a Scaredi. Sullo sfondo la Laurasca

“Questa è la descrizione di una gita scolastica in cui accompagnai come guida alpina due classi del Liceo Berchet di Milano. La gita fu organizzata dal professore di filosofia Marco Fossati nel mese di maggio 1997. Ad accompagnare i ragazzi, oltre al professore di filosofia c’erano altri due professori.

La gita fu, per i ragazzi, per i professori, e per me, molto impegnativa. Per i ragazzi e le ragazze, che erano una trentina, di 16 e 17 anni, cittadini, quasi tutti poco abituati alla montagna e alla fatica, rappresentò un vera e propria prova di coraggio, soprattutto il bivacco allo stallone di Scaredi, a 1840 metri, con ancora molta neve al suolo. La notte fu fredda e stellata,e in mancanza di acqua, perché la fontana era gelata,  bisognò rifornirsi alla fontanella di Cortenuovo, più in basso, con numerosi viaggi. Per i professori credo che l’impegno fu dovuto soprattutto alla responsabilità e all’opera continua di convinzione,nei confronti dei meno allenati o più pigri, a continuare a camminare. Per me per gli stessi motivi dei professori ma in più anche perché sentivo la responsabilità di far innamorare della montagna quei ragazzi: volevo che per loro fosse una grande bella esperienza da ricordare nella vita, e non solo una gran faticata, ma non so se ci sono riuscito.

L’uscita durò tre giorni, i ragazzi arrivarono a Malesco nel primo pomeriggio, in treno. Si sistemarono in albergo e andammo poi a visitare Craveggia con le sue magnifiche case signorili del XVII, XVIII secolo, dai caratteristici, altissimi camini, i tetti in piode dalle ripide falde, i balconi in pietra e le pareti spesso affrescate e le finestre incorniciate da pitture. Naturalmente vedemmo la Loggia dei Bandi e la Casa Borromeo, con lo stemma e il motto “beneagendo ne timeas”.

Dopo la cena fui esentato dal passare la notte in albergo con gli allievi e mi ripresentai il mattino seguente. L’equipaggiamento dei ragazzi era eterogeneo, qualche zaino da alpinismo ma soprattutto zainetti scolastici, sacchi a pelo pesanti di modello militare, scarpe abbastanza robuste, anche se non propriamente da montagna ma spesso di tipo Clark, viveri come al solito sovrabbondanti, da stare fuori non due giorni ma almeno quattro o cinque, e c’era l’immancabile chitarra.

Partimmo a piedi da Malesco, sdegnando la carrozzabile della Val Loana che porta a Fondighebi, ma prendemmo per la vecchia mulattiera che parte dalla fine del rettilineo Santa Maria – Malesco, un centinaio di metri prima del ponte sul Torrente Loana all’ingresso del paese. Passammo da Vigiallo (m 785) e poco dopo iniziammo a salire lungo la mulattiera lastricata. Dopo nemmeno mezz’ora di cammino qualcuno cominciò a chiedere: quanto manca.

Continuammo sempre sulla sinistra orografica del torrente, passammo S. Antonio (m 947) e poi raggiungemmo la confluenza tra il Rio del Basso e il Torrente Loana (Alpe Basso m 1034).

Tutta questa parte di percorso non l’ho più fatta da allora perché sono sempre salito a Fondighebi in macchina, come credo facciano tutti, ma la ricordo suggestiva, col rumore del torrente altalenante, a tratti più forte, a tratti lontano, e sempre l’umida penombra del bosco di faggi e lame di luce nel pulviscolo di polline dorato. Qui avremmo potuto risalire allo stradone ma non lo dissi ai ragazzi e continuammo per il sentiero meno agevole della sinistra orografica del Rio Loana fino all’Alpe Cascine (m 1253) dove oggi c’è l’omonimo agriturismo e non ricordo se già ci fosse. Trovammo lungo il sentiero numerose piazzole di terra nerissima, segni di vecchie carbonaie, dove bruciando lentamente e in presenza di poco ossigeno legna di faggio si produceva la carbonella. Normalmente è da qui che inizia la gita, ma noi camminavamo già da ore, a passo lento e con continue soste: dietro di me sentivo la presenza costante e scoraggiante di quella che Elias Canetti in Massa e Potere chiama “la muta del lamento”.

In fondo al piano ci fermammo alle fornaci della calce, per le quali veniva usato il marmo del Lago del Marmo, portato giù a pezzi coi muli e cotto con carbone di legna per otto giorni a mille gradi, continuammo poi per la bella mulattiera fino a Cortenuovo (m 1792) dove cominciava la neve.

Finalmente, a pomeriggio inoltrato arrivammo a Scaredi (m 1841) che appariva scintillante di bellezza, con ancora molti nevai e le prime chiazze d’erba fiorite di crochi e a chiudere l’orizzonte le pareti del Rosa e dei Mischabel.

Una ragazza mi chiese dov’era il rifugio in cui avremmo dormito, quando gli indicai lo stallone che allora era pulito e in ordine ma completamente spoglio e ancora più spartano di adesso, con solo un camino per fare il fuoco, senza letti ma solo il tavolato, si mise a piangere.

Organizzammo la spola a Cortenuovo per prendere l’acqua; nel magnifico tramonto facemmo una breve gita al Lago del Marmo (m 1981) nel quale alcuni blocchi di ghiaccio si confondevano con i bianchi blocchi di marmo che lo circondano, poi tornammo allo stallone dove accendemmo il fuoco.

Il professore cominciò a raccontare della guerra partigiana, soprattutto del rastrellamento della Val Grande del giugno 1944, nel quale combatterono 16.000 tra tedeschi e fascisti contro poco meno di 500 partigiani, di cui più della metà furono massacrati, non solo in combattimento, ma barbaramente, in spregio del normale senso di umanità e di tutte le convenzioni di guerra: “ogni partigiano armato, disarmato, ferito, moribondo, dopo la cattura viene ucciso alla spicciolata o fucilato pubblicamente”. Durante il rastrellamento la maggior parte delle baite e degli alpeggi della Valgrande furono bruciati, il villaggio di Cicogna fu bombardato, si può dire che l’agricoltura della Valgrande da allora non si risollevò più.

Aveva con sé il libro di Nino Chiovini, “I giorni della semina”, di cui lesse alcuni brani e anch’io nella tasca superiore dello zaino tenevo “In Valgranda” dell’Erminio Ferrari, appena uscito, che per me era come per un prete il breviario. Il professore soprattutto raccontò dell’imboscata dell’Alpe Portaiola, perché si trova poco sotto Scaredi, scendendo verso In la Piana. E’ un modo efficace di fare una lezione di storia quello di poter dire: ecco, il 20 giugno 1944, i partigiani del comandante Superti erano là, all’Alpe Campo (e l’indica col dito ) già da alcuni giorni, avevano finito i viveri e gran parte delle munizioni e camminavano da più giorni, spesso sotto la pioggia. Speravano di attraversare il rio Portaiola nei pressi dell’alpe, eludendo i nazisti che occupavano In la Piana, per uscire dal rastrellamento e riparare in Val Vigezzo. Favoriti dalla nebbia, raggiunsero Portaiola, ma una schiarita li tradì e molti di loro rimasero morti o feriti sotto il fuoco nemico. I feriti furono passati per le armi. Superti, con alcuni dei suoi riuscì a salvarsi ma a Straolgio (che si trova proprio qui vicino, a un chilometro da qui, sotto il Pizzo Stagno, poco dopo la Cappelletta di Terza) altri tre partigiani furono uccisi dai tedeschi e solo Superti e un ragazzo si salvarono. Altri partigiani sfuggiti all’imboscata si diressero verso Colloro, ma furono scoperti all’Alpe Casarolo dove nove di loro furono uccisi (alcuni subito, feriti e prigionieri fucilati poco dopo). L’alpigiano Enrico Andreolotto di Colloro, che li aveva ospitati, fu ucciso a randellate nel quartier generale dei nazisti a In la Piana, il fratello Giovanni (Vanin) fu trovato e fucilato nel punto in cui si trovavano ancora i cadaveri dei nove partigiani.

I ragazzi stettero attenti per tutta la lezione e fecero molte domande. Per cena facemmo cuocere sul fuoco una gran pentola di minestra, mangiammo i nostri panini, noi adulti stappammo una bottiglia di vino. Poi ci infilammo nei sacchi a pelo e cercammo di dormire su quel duro letto. Il mattino il tempo era ancora magnifico e scendemmo per la stessa strada a Malesco”.

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Ossola Bella e Buona – Sentieri e Sapori dal Monte Rosa alla Val Formazza
Di Livia Olivelli e Alberto Paleari
MonteRosa Edizioni

www.monterosaedizioni.it

© AlpineSketches 2015