Mike Kosterlitz: l’anima inglese del Nuovo Mattino
di Gianni Battimelli
Per il nuovo anno accademico, stava per arrivare un ospite straniero che avrebbe desiderato incontrare qualcuno con cui arrampicare. Ma il tecnico dell’istituto di Fisica era un alpinista serio, con una rispettabile attività e una lunga esperienza alle spalle; e non aveva poi tanta voglia di perdere il suo tempo dietro un giovane inglese, magari entusiasta ma certo inesperto, che come niente le montagne vere non sapeva nemmeno dove stessero di casa. Così il nuovo arrivato passò l’inverno limitandosi a sporadiche escursioni con gli sci, pestando neve qua e là nei dintorni. Solo all’inizio della primavera, visto che dall’altra parte non si faceva vivo nessuno, decise di prendere l’iniziativa, e si presentò al tecnico, agguantandolo nei corridoi dell’istituto.
Messo alle strette, l’alpinista cercò con discrezione di ottenere qualche informazione sulle credenziali del giovane teorico. Venne fuori che la sua lista di ascensioni alpine includeva, oltre a qualche ascensione dolomitica tra cui una delle prime salite al diedro Philipp in Civetta, roba come la prima ripetizione della Diretta americana ai Dru, e una nuova via sulla parete nord del Badile. Fu cosi che Piero Malvassora (“se l’avessi saputo prima…”) introdusse Mike Kosterlitz nell’ambiente dei giovani alpinisti torinesi, e poco dopo l’inglese era in Valle dell’Orco con Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi. Era la primavera del 1979.
Sul Caporal come nel paradiso terrestre
“Era incredibile, semplicemente incredibile. C’era quella successione continua di pareti di granito, una più bella e più grande dell‘altra, dove era ancora tutto da fare, tutto. Era come scoprire una Yosemite dietro la porta di casa. Per me. abituato alle piccole pareti del Galles e del Derbyshire, sfruttate fino all’ultimo appiglio, era un paradiso in terra. C’era più roccia vergine sul solo Caporal che in tutta Snowdonia. Dovevamo solo decidere dove andare, era assolutamente incredibile che ci fossero ancora posti così”.
Ho incontrato Mike Kosterlitz nella sua casa a Providence, Rhode lsland, dov’è professore di fisica alla Brown University. Per me era l’occasione insperata di incontrare una persona che, da noi, è diventata una sorta di figura leggendaria, di dimensioni mitologiche e contorni imprecisati. Per Mike è stata un’opportunità per ritornare indietro a momenti abbandonati. estraendo dalla memoria ricordi e immagini seppelliti da tempi molto lontani.
“Una delle prime volte andai ad arrampicare per il fine settimana con Grassi. Il primo giorno facemmo una via nuova sul Corno Stella. Durante il ritorno — era ancora presto — decidemmo di cambiare zona e far qualcosa da un‘altra parte, e il giorno dopo riuscimmo nella prima ripetizione di una via aperta di recente dalle parti della Torre Castello (la “via dei Tetti a zeta”, n.d.a.*). C’erano un sacco di chiodi a pressione: molti del tutto superflui, e allora decisi di eliminare tutti quelli che riuscivo a passare da capo-cordata senza usarli. Ne ho rotti un bel pò, credo… A metà via c’è un tetto molto pronunciato, che i primi salitori avevano superato in artificiale. Riuscii a trovare il modo di passare in libera, con uno strano e difficile gioco di incastri e contorsioni, nella fessura alla radice del tetto. Arrivato alla sosta, cercai di urlare a Gian Carlo di togliersi il sacco: non ce l’avrebbe mai fatta a passare con lo zaino sulle spalle. Ma un po’ per il vento, un po’ perché io non parlavo bene italiano e Gian Carlo non capiva l’inglese, insomma lui tenne lo zaino in spalla e successe l’inevitabile: a metà tetto volò con un pendolo di dimensioni impressionanti. Mi ricordo che un momento, guardando in giù dalla sosta, vedevo i ghiaioni alla base, e un attimo dopo c’era Gian Carlo che sbucava fuori dal tetto, proiettato a tutta velocità nello spazio. Erano bei giorni, avevamo il mondo tutto per noi e ci divertivamo”.
L’arrampicata ad incastro
Mike fa le fusa ronfando sornione come il gatto che tiene sulle ginocchia, quando gli racconto storielle e aneddoti sulla famosa fessura in Valle dell’Orco. “Certo, quella era una tecnica che io avevo in più rispetto ai locali, abituato com’ero all’arrampicata nelle fessure sul gritstone, dove la progressione è tutta di incastro. Le altre novità che ho in qualche modo importato sono state le scarpe a suola liscia e soprattutto i dadi, nelle versioni ancora rudimentali e disponibili all’epoca, poco più che dei bulloni con dentro un cordino. Anche quelli, comunque erano già un bel passo avanti rispetto alla tradizione di assicurazione usata in precedenza in Inghilterra o in Galles. Una volta m‘è capitato di ritrovarmi ad arrampicare con una di quelle vecchie tigri. Alla base della via il mia compagno mi passa una manciata di sassi di varia misura e un mazzo di cardini. Stando bloccati con una mano nella fessura, l’idea consisteva nell’estrarre dalla tasca dei pantaloni il sasso della dimensione giusta, incastrarlo per bene, passarci attorno il cordino, fare il nodo (tutto con la mano libera) e moschettonare, esercizio interessante, intendiamoci, non che comunque sia sempre stato geniale usare dappertutto le ultime novità: non ho mai avuto tanta paura come quando sono dovuto uscire dalle ultime lunghezze del diedro Philipp, completamente intasate di ghiaccio, con le PA ai piedi”.
Le imprese grandi
Queste storie di innovazioni tecniche e materiali strani richiamano altri ricordi, che permettono di aggiungere dettagli inediti a storie già famose. Nel ‘65 Mike realizza con Mick Burke la prima ripetizione della via Hemming-Robbins ai Dru. Arrivano al bloc coincé, dove ci si raccorda con la via classica della parete ovest, e da lì sono costretti a tornare indietro per l’arrivo del cattivo tempo. Calano a corde doppie lungo la via appena salita, attrezzano molti degli ancoraggi con cordini incastrati in dadi e bulloni di primitiva fattura.
L’anno dopo c’è l’epico salvataggio dei due tedeschi bloccati sulla parete ovest dei Dru, su quel famoso terrazzino dopo la traversata del pendolo. La squadra di soccorso delle guide di Chamonix, che tenta il recupero dalla parete nord, è battuta sul tempo dal gruppo di volontari guidati da Desmaison, che risalgono più rapidamente sulla Ovest e si calano, una volta raggiunti i due alpinisti, lungo la Diretta americana. “Nel gruppo di Desmaison c’erano Gary Hemming e Mick Burke, e sicuramente la decisione di scendere lungo l’”americana” è stata presa, oltre che per la presenza di uno dei primi salitori della via, anche perché Burke sapeva esattamente dove erano le calate, tutte attrezzate da noi l’anno precedente. Mick mi ha poi raccontato che agli inizi Desmaison e gli altri erano piuttosto perplessi all’idea di calarsi usando come ancoraggi quegli strani aggeggi metallici incastrati nelle fessure, Poi, volenti a nolenti, hanno preso confidenza”.
Delle sue salite sulle Alpi, Mike ricorda in modo particolare la via sulla Nord Est del Badile, portata a termine con Dick lsherwood nel ’68, oggi nota come “via degli inglesi”, rimasta a lungo senza ripetizioni prima di diventare conosciuta e, recentemente, classica. “Quella l’abbiamo fatta proprio per sbaglio. Eravamo partiti per ripetere la via di Corti: a un certo punto mi sono trovato su per un camino-fessura nettamente più difficile di quanto avevamo salito fino a quel momento, e non c’era più nessun segno di passaggio, chiodi o cunei, che pure abbiamo trovato più in basso, su terreno più facile. Allora abbiamo capito che eravamo fuori via, ma abbiamo decisa di continuare, eravamo su una linea di fessure che chiaramente poteva essere seguita fino in cima. L‘abbiamo pagata con un bivacco scomodissimo e bagnato, ma è venuta fuori una gran bella via. Nel tratto centrale abbiamo usato l’artificiale, ma ero convinto anche allora che a provarci seriamente si potesse passare in libera”.
All free
Questo dell’arrampicata libera è un tema che ritorna con insistenza nella conversazione, a conferma di quanto già si sapeva sulle capacità e soprattutto sull’ottica dell’inglese. Mike mi racconta di avere studiato la possibilità, mentre saliva la Cassin alla Ovest di Lavaredo, di realizzarne una salita “all free” (e stiamo parlando dei primi anni ‘60). “Ci ho provato ma senza molta convinzione, i chiodi erano quelli che erano e ho lasciato perdere. Però credo che con una protezione adeguata dovrebbe andare. E stata fatta?”.
Anche più tardi, lasciata l’Europa per l’America. Mike ha lasciato il segno, incontrando gente che in materia di “clean climbing” era ancora più rigorosa di lui. Nel ‘74 apre con Art Higbee (quello della quasi-prima salita in libera integrale della Nord Ovest di Half Dome) un nuovo itinerario, in fessura s’intende, sullo Snowpatch Spire, nel gruppo dei Bugaboos, in British Columbia. «Art era assolutamente deciso a non portare altro che dadi. Io, visto quello che avevamo intenzione di fare, ho infilato di nascosto nello zaino un martello e un mazzo di chiodi. L ‘abbiamo fatta tutta “pulita“, ma quando si è trattato di trovare un ancoraggio per le doppie è stato molto contento anche lui di scoprire che avevamo un po’ di quella disgustosa ferraglia.”
Dieci anni dopo
Poi torniamo a parlare dei suoi giorni torinesi, della sua visita successiva nel ’73, quando veramente si aprirono le porte della Valle dell’Orco, e nacquero prima il “Pesce d’aprile” alla Torre di Aimonin e poi il suo capolavoro nella zona, “Sole nascente” al Caporal. Mike ricorda il primo tiro, l’artificiale delicato lavorando con microdadi e porcherie d’epoca sul muro iniziale. Poi gli brilla un lampo negli occhi: «E stato fatto in libera?”.
Ci sono molte ragioni per cui si smette di fare dell’alpinismo. Ci si sposa, prendono il sopravvento interessi diversi, si decide che il gioco non vale la candela, si assumono responsabilità che rendono ai propri occhi non più giustificabili gli stessi rischi, o semplicemente non se ne ha più voglia. Per Kosterlitz, l’abbandono dell’attività è legato ad un fatto preciso quanto incontrollato, due parole secche di una diagnosi impietosa: sclerosi multipla. “Era da un po’ che avvertivo degli scompensi quando arrampicavo, mi sembrava di non avere più lo stesso senso dell’equilibrio. Poi ho avuto la conferma dai medici, e allora ho interrotto. Di colpo”.
Una cesura netta col passato, la cancellazione forzata di una passione di vita. Oggi Mike sembra aver assorbito il colpo, essersi adeguato con serenità alla situazione. Ma sono passati più di dieci anni, un lungo periodo di estraneità e di isolamento dal mondo che era fino ad allora la sua altra esistenza. Ero esitante, agli inizi del nostro incontro, a riaprire questa finestra sul passato: temevo di apparire indelicato, sapevo che avrebbe potuto essere imbarazzante. “A Mike ha fatto piacere ricordare i primi giorni del suo alpinismo, è stato contento di ricevere la tua lettera e di vederti”, mi dice la moglie Berit accompagnandomi alla porta. “Ma se ti fossi fatto vivo qualche anno fa, non avrebbe accettato di incontrarti e di parlare di quei tempi. Sarebbe stato troppo doloroso, allora. Adesso è diverso”.
Mi torna in mente la frase di Seneca sulla “memoria dei giorni passati. che possano venire a te con serenità”. E ricordo a cosa e associata per me: era posta come motto all’inizio di un celebre articolo di Gian Piero Motti, scritto poco prima che, insieme a Mike Kosterlitz e qualche altro amico, inventasse il Nuovo Mattino sulle lavagne di granito della valle.
Gianni Battimelli, 1988
* proposito della storia della via dei Tetti a zeta, dopo la pubblicazione del pezzo sulla Rivista della Montagna arrivò una smentita di Ugo Manera che negava decisamente che sulla via ci fossero dei chiodi a pressione: e dunque, molto verosimilmente, o Mike ha fatto confusione nei ricordi o io mi sono sbagliato …
NdR 2016
La foto di Kosterlitz in giardino e col gatto, immagine che adesso fa il giro del mondo, è di Gianni Battimelli. L’orrendo collage di copertina è invece opera mia. Nel caso vogliate utilizzarla e a vostra discolpa, citate Alpine Sketches, non sia mai che qualche altro scienziato abbia da dire, un domani.
Gianni Battimelli insegna fisica e si interessa di storia; professionalmente, di storia della scienza e, da dilettante, di storia dell’alpinismo. Quando possibile, gira per montagne intorno a casa (Roma) e gira per il mondo in cerca di altre montagne. Ha collaborato saltuariamente a qualche rivista di alpinismo, e ha curato, con Stefano Ardito, una raccolta di scritti di alpinisti italiani.
© alpine sketches 2017
Mi piace questo articolo,complimenti
Bello!
Un futuro Nobel fra i falliti 🙂
Ho letto tutto con immenso piacere. Da uno che al massimo, tanti anni fa, ha fatto il IV+, ma che prova ancora emozione.