L’impegno di arrampicare

di Ernesto Lomasti

DiedroCozzolinoresizeforweb2

Piccolo Mangart di Coritenza. Foto http://www.inmont.it

Amici, parenti, gente che appena mi conosce, mi rivolge subito la stessa do­manda: «Perché vai in montagna? Perché arrampichi? Perché vai da solo?» ed in seguito a questi quesiti nascono delle discussioni dalle quali i miei inter­locutori non escono mai soddisfatti e nemmeno io riesco a dire tutto ciò che vorrei. L’alpinismo è uno sport libero, che ben poco si presta ad essere giudicato insieme a coloro che lo praticano. Molte volte cerco di dare a me stesso una ri­sposta. Perché?

Nella mia mente si acca­vallano mille pensieri, mille supposizioni, ma alla fine mi sembra chiaro: l’alpinismo è per me una ragione di vita, la stessa vita di ogni giorno che ha causato in me situazioni, emozioni, scelte che mi hanno portato sui miei passi. È forse difficile da capire ed anche da spiegare; è per questo che ho deciso dì rivivere attraverso il ricordo e le immagini un periodo della mia vita, quello che va dalla prima ascensione solitaria del Diedro Cozzolino sul Piccolo Mangart di Coritenza fino ad oggi; al racconto di questa salita seguiranno i racconti di tante altre, come molte verranno dimen­ticate; questo proprio perché non voglio fare una relazione della mia attività, ma perché voglio far capire, attraverso il contrastato vivere di ogni giorno, il perché della mia vita. Non più quindi due vite separate, una di uomo e l’altra di alpinista, ma un’esistenza di un giovane come tanti vuotata delle apparenze.

Affascinato dal diedro Cozzolino 

«Dall’incontro delle più belle pareti con gli arrampicatori più forti nascono i ca­polavori dell’alpinismo moderno».

Con queste parole di Dino Buzzati, Gino Buscaini apre la sua premessa all’ardito itinerario che Enzo Cozzolino è riuscito ad aprire assieme a Bernardini sulla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza: l’enorme diedro, la cui linea percorre dalla base alla cresta sommitale tutta la parete, era stato oggetto di nu­merosi ma infruttuosi tentativi fatti an­che da scalatori di eccezione, come Ignazio Piussi; e l’anno successivo alla vittoria del giovanissimo triestino (Coz­zolino), anche la forte cordata di Ca­ratù-Acerro era stata respinta nel tentativo di una prima ripetizione; aveva dovuto raggiungere la vetta lungo l’atti­gua via Piussi.

Appena uscita la nuova guida delle Alpi Giulie, la parete non creava per me nessuna attrazione, anche perché era ben lontana dalle mie possibilità. Solo dopo l’ottobre del 1975, quando con il prode Attilio Scocje (Di Marco) avevo ripetuto la via Comici sulla parete nord della Cima di Riofreddo, il mio interesse ave­va completamente dimenticato le fami­liari pareti circostanti il rifugio Brunner, che fino a quel momento erano state la mia meta, per ricadere su altre ben più importanti. Leggevo e rileggevo sulla guida delle Alpi Giulie le relazioni della Comici all’Innominata, della Piussi alla Vallone, la mia fantasia mi faceva corre­re tra pareti e spigoli, pareti e fessure, mi faceva rivivere le prodezze dei primi salitori.

Fra questi, quello che più mi incuteva soggezione era Ignazio Piussi; ascoltavo a bocca aperta i racconti di chi lo conosceva e che aveva arrampicato con lui; me lo immaginavo enorme, for­te, dalle mani potenti e tenaci. Sulla Cima di Riofreddo, all’uscita del Vano Nero, avevo osato percorrere con lo sguardo la sua variante diretta e ne ero stato colpito. «Straordinariamente difficile» -diceva la guida- ed ogni metro mi era sembrato tale. E su di essa leggevo tutti gli itinerari che egli aveva aperto: Mangart, Veunza, pareti che non avevo mai visto e che però conoscevo a perfe­zione; avrei saputo ripetere a memoria le relazioni.

La domenica prima della fes­sura Comici avevo ripetuto assieme a Renzo Pesamosca una sua via sull’Ago di Villacco. Il primo tiro era valutato di VI-: mi era sembrato più facile, ma non avevo osato mettere in dubbio la classificazione del forte Ignazio.

Se però esisteva in me l’aspirazione di ripetere queste durissime vie, non mi passava neanche per la testa di rivolgermi con questi pensieri ad un altro itinerario, degno della parete del Piccolo Mangart: il Diedro Cozzolino. Ne avevo sentito parlare, avevo letto, mi ero informato a lungo su di lui, sulle sue salite; Messner riteneva che insieme a Bonatti aveva introdotto il settimo grado. A Trieste raccontavano che passava in libera su placche dove gli altri non pas­savano nemmeno con i chiodi a pressio­ne; aveva aperto una via sulla Cima Scotoni di difficoltà estreme, con una traversata di quaranta metri che aveva fatto diventare i capelli bianchi al com­pagno e che nemmeno Messner era riu­scito a ripetere.

Che cosa poteva quindi essere il tratto chiave della seconda metà del Diedro del Piccolo Mangart? Quale passaggio straordinario, impossibile, aveva potuto respingere la cordata di Caratù-Acerro, tornati vittoriosi da una Carlesso alla Torre Trieste. Cozzolino aveva valutato di VI il tratto chiave, però del resto della salita ben poco si sapeva. I ripetitori della prima metà l’avevano descritta molto bene: III + all’attacco, poi pochi tratti di IV + e, per il resto, 300 metri di V, V + e VI- molto sostenuti; ma, secondo i primi salitori, gli ultimi 400 metri erano molto più sostenuti della parte bassa, senza possibilità di riposo; però, senza osare neppure crederci, ma­turava piano in me un certo interesse per poter risolvere di persona l’incognita che racchiudeva quella salita.

Mi allenavo in continuazione, in qualsiasi maniera, per uno scopo che nemmeno per me era chiaro; sapevo che lo facevo per qualcosa che man mano che il tempo passava si rendeva più evidente e reale. Alla fine di luglio di quest’anno avevo ripetuto da solo tutte le più difficili arrampicate del gruppo dello Jof Fuart e del Monte Ca­vallo; in quest’ultimo avevo fatto alcune prime ascensioni insieme a Sandro e a Titti.

Mi sentivo pronto, ma a che cosa? Finalmente la risposta: avrei attaccato il Diedro Cozzolino; e solo, perché sapevo che nessuno sarebbe venuto con me. Non avevo parlato chiaramente con nes­suno di ciò, lo tenevo come un segreto, ma molti lo sapevano: Emilio, Lorena, Sandro, Manlio, mi avevano proibito di partire senza avvisarli. Volevano accompagnarmi e seguirmi lungo la salita, aspettarmi quindi in cima. Venerdì sera, dopo una cena tra amici, qualcuno mi aveva chiesto se andavo ed io avevo risposto che non sapevo. Ed invece sape­vo. Poi, verso le quattro del pomeriggio, mi sono recato da un amico; lì ho trovato anche Sandro e Manlio. Ho detto: «Do­mani vado». I loro volti si sono riempiti di gioia, ma anche di preoccupazione. «Io e Lorena ti accompagniamo, venia­mo con te stasera». «No, invece – dice Sandro -andiamo domani mattina presto. Ma stai attento, stanotte non dormirò». «Neanche io» gli rispondo sor­ridendo. Qualcuno, che l’anno scorso aveva scommesso una birra sulla mia precoce fine, mi dice di lasciargliela pagata.

Rido per non piangere e sono l’unico; gli altri volti sono seri, quasi rabbiosi. Appuntamento alle sei a casa di Emilio, questo per non insospettire i miei genitori. Sanno che vado sul Mangart, ma non sul Diedro, e meno che mai da solo. Verso le cinque e mezza vengono Manlio e Sandro a suonare a .casa mia; non li faccio entrare per lo stesso motivo. Parliamo di nuovo della salita, mi fanno di nuovo le solite raccomandazioni. Mi aspetteranno in cima. «Acqua in bocca!» li ammonisco, ma l’orecchio fino dei miei ha sentito tutto; salgo in camera e mia madre mi supplica di dirle la verità. Non mi pronuncio; quando la saluto, ha gli occhi gonfi; spero di rivederglieli doma­ni, gonfi di gioia …

Più tardi vedo la parete, enorme; per la prima volta ho paura. Ma la paura non toglie la forza dei muscoli e ti stimola a vincerti. Mentre. nell’oscurità piantiamo la tenda, Attilio osserva con il binocolo un branco di camosci che saltano sotto al Diedro… Emilio e Lorena guardano il profilo severo della parete, io non oso… «Ma devi proprio andare?» mi dice Emilio. «lo voglio ancora venire ad ar­rampicare con te».

Apparentemente mi dimostro deciso… La tenda è pronta e ci prepariamo per la notte. Io preparo il sacco per domani: 16 chiodi, 10 moschettoni, 2 corde; poco da mangiare e poco da bere pigiato a fatica nel marsu­pio. Stasera non ho fame, ho un nodo nello stomaco, eppure mi sforzo di in­ghiottire qualche boccone, se non altro per non dimostrare la mia preoccupa­zione. Forse ho voluto fare progetti troppo grandi, forse mi sono sopravva­lutato. Silvano è più forte di me, eppure non ha mai osato affrontare il Diedro, neppure in compagnia. Tanta gente è ritornata ed erano preparati. Potrei ri­tornare anch’io, è vero, ho due corde per questo; ma non è facile, perché ho un carattere simile all’acciaio: si spezza ma non si piega. E purtroppo spezzarsi si­gnificherebbe morire.

Ma perché sono così pessimista? Ho una buona attività alle mie spalle; è da due anni che occupo il mio tempo libero in allenamenti, sia fisici che morali! Due ombre mi distol­gono dai miei pensieri: sono due ragazzi; li saluto, ma subito mi domando che cosa facciano. Li invitiamo a sedersi attorno al fuoco; sono slavi, sono venuti a piedi dal confine; chiediamo loro dove vadano. Emilio sorride. «Per dove?» chiede. «Cozzolino». È l’unica parola che sanno dire in italiano. Se prima Emilio sorride­va, adesso ride a crepapelle, un po’ per sfottermi, un po’ perché è contento. An­ch’io lo sono, pur dimostrandomi quasi dispiaciuto di avere concorrenti…

…All’attacco arrivano anche i miei due compagni; le loro facce sembrano preoccupate, forse per loro, di più per me. Tutti e due mi fissano, vorrebbero dire qualcosa. Poi uno di loro, per rom­pere l’atmosfera, mi chiede segnando con il dito il centro della parete: «Piussi?» «Sì, ja» -rispondo, nient’altro…

La scalata, da solo 

Alle 9,30 raggiungo la cengia alla base del tratto chiave sopra l’ignoto! Mi siedo con la schiena poggiata alla parete per scoprire il passaggio che mi respin­gerà o che, chissà, mi vedrà vincitore, ma non riesco a scorgerlo: non vedo nessuno strapiombo pauroso, nessuna placca im­possibile, non c’è più il mistero, è anche questa una parete, un pezzo di roccia come tutti gli altri. Non sento più in me quell’ansia, quel timore, quel nervosismo che provavo prima di giungere qui; mi sento calmo, stranamente calmo, decido di mangiare e di bere qualcosa…

Riparto, raggiungo il fondo del camino e su roccia viscida monto su un masso incastrato. È giunto il momento di autoassicurarmi. Pianto un chiodo, vi passo un cordino, ma ad un certo momento mi fermo; mi viene in mente quando que­st’anno, da solo, sullo spigolo Deye-Pe­ters mi ero assicurato sul tratto chiave; mi si era incastrata la corda ed ero do­vuto ridiscendere in arrampicata libera a sbloccarla. Mi rimetto a tracolla il cordi­no, estraggo il chiodo e riparto. Ho fidu­cia in me stesso.

Traverso a sinistra su appigli minimi fino al centro della parete, dove trovo un chiodo; più sopra un secondo ed un terzo: sono di Cozzolino. Sento il sangue correre impazzito nelle vene. Anch’io sono arrivato dove è arri­vato lui. Salgo sicuro fino al terzo chiodo e qui mi fermo: gli ultimi metri del passaggio sono strapiombanti e le fessure cieche e larghe; non si può chiodare. Frattanto anche gli slavi sono allo spiaz­zo ghiaioso; uno si accorge che le mie corde sono libere nel vuoto, senza assicurazione; passa la voce all’altro ed en­trambi mi guardano con gli occhi sbar­rati. Provo due volte il passaggio, quindi lo supero di slancio.

Ce l’ho fatta! Ho vinto il passaggio, ma non la via. Di questo sono ben cosciente. Non devo lasciarmi trascinare dall’entusiasmo. Due lunghezze oblique verso destra mi portano verso uno strapiombo compatto; mi alzo alcuni metri, ma all’altezza di questo mi ritrovo bloccato. Appigli ed appoggi sono piccoli ed arrotondati; spero che gli scarponi tengano perché con le mani riesco appena a vincere le leggi di gravità. Sono sotto tensione: non vi sono fessure per piantare chiodi, ed anche se vi fossero non potrei disimpe­gnare la mano. Mi rifiuto di pensare ad una possibile caduta; non devo cadere, a costo di aggrapparmi con i denti.

Vi è un accavallarsi di pensieri nella mia mente: mia madre, i miei amici, la cima, il ca­dere, il morire. Forse ho osato troppo, eppure mi sentivo forte, ma questa forza potrebbe abbandonarmi; devo muover­mi prima che ciò accada. Alzo le gambe in spaccata, stringo i denti e libero in alto una mano, ma non ci sono appigli. Devo provare a battere un chio­do; dopo vari tentativi, riesco a confic­carne uno per un centimetro, ciò che basta ad equilibrarmi; lo afferro con due dita, mi alzo leggermente e afferro un altro appiglio. Tiro il cordino che avevo agganciato al chiodo e questo viene fuori senza la minima resistenza.

Sono circa a metà della seconda fessura, in una specie di caverna; un largo camino conduce sotto un tetto. Le pareti sono troppo distanti tra di loro e per di più levigate e viscide, poi il camino si chiude a k; lassù potrò progredire in spaccata, ma come arrivarci? Mi alzo difficilmente lungo la parete sinistra, poi non ci sono appigli. Riesco ad infiggere un chiodo a metà, gli scarponi scivolano sugli appoggi. Devo sbrigarmi! Mi getto con entrambe le mani sulla parete opposta del camino facendo pressione con una gamba, alzo l’altra e poso un piede sul chiodo spe­rando che tenga; ora posso mettermi in spaccata. Le gambe sono divaricate al massimo, i legamenti dell’inguine sem­brano doversi spezzare da un momento all’altro. In tale situazione raggiungo il tetto, provo ad uscire a destra, ma la roccia è pericolosa. Batto un chiodo per potermi riposare, ma è impossibile. Riu­nire le gambe significherebbe non riu­scire più ad aprirle. A sinistra la placca è perfettamente liscia, ma il tetto forma con essa una stretta fessura strapiombante ed obliqua: cerco in questa un qualche cosa che mi permetta di toglier­mi da tale situazione. Vi scorgo uno spuntoncino di un paio di centimetri sul quale riesco ad aggrapparmi con la mano sinistra.

È arrivato intanto nella grotta il primo degli slavi: mi guarda, e storce la testa. Mi prega di lasciargli i chiodi: me li ritornerà poi in cima. Mi sgancio dal chiodo, sposto la spaccata, un piede sulla placca e uno sul bordo del tetto e lascio l’ostacolo sotto di me. In breve raggiungo la terza fessura: seppur difficile, non dovrebbe presentare passaggi estremi. Sento di avere la vittoria in pugno, ma arrampico sempre calmo e concentrato. Verso metà fessura batto un chiodo per superare un ennesimo passaggio ostile. Seppure impegnato, cerco di pensare dove possono aver dormito i primi sali­tori: non c’è proprio niente su cui sedere. Vedo avvicinarsi sempre di più la cengia sotto i tetti, la fine delle difficoltà. Sono stremato dalla sete, sento tra i denti un sapore di terra marcia…

Dopo otto ore di dura arrampicata, poso i piedi sulla tanto agognata cengia. Mi volto per recuperare le corde: la parete è sotto di me; ho vinto! Un nodo mi gonfia ancor di più la gola; mi siedo, appoggio la testa sulle gambe, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Signore ti ringrazio.

Ero contento perché avevo vinto la parete, ma soprattutto perché avevo vin­to me stesso. Dopo anni di sacrifici e privazioni, avevo raggiunto il mio scopo. Ed ora sono contento come non lo ero mai stato; mai riuscirò ad esprimere a parole questo accavallarsi di sentimenti.

Giunti alla campagnola guardo per un’ultima volta la parete: il Diedro è sempre lì, il temporale è passato e la luce del sole ne illumina come ieri sera una faccia; è uguale, eppure diverso; vorrei poter tornare indietro. Era per me un mito e ci credevo; ora il mito è infranto, ma io continuerò a crederci.

Difficoltà di altro genere 

È l’otto agosto 1977 ed il mondo sembra cambiato; io, invece, mi sento sempre lo stesso. Ho salito da solo il gran Diedro ma, a parte la stanchezza ed un po’ di orgoglio personale, non sono affatto diverso da sabato scorso prima della partenza. Eppure la gente è così: c’è chi non mi salutava e ora mi saluta; c’è chi mi salutava a stento e ora mi onora; c’è chi per la decima volta mi fa raccontare la salita. Gli unici che non sono cambiati sono gli amici: Sandro, Emilio, Manlio, Titti; un sorriso, una stretta di mano, poche parole e come sempre tanta simpatia.

Quattro giorni dopo il piccolo Mangart sono nuovamente in montagna assieme a Sandro e Titti. Una giornata piena di imprevisti: la dimenticanza di una corda, la rottura del martello, il volo del mar­supio fino sul nevaio. Ma raggiunta la fine del bellissimo spigolo Krobath della Cima Vallone ogni preoccupazione come sempre svanisce ed il ricordo della salita appena compiuta si unisce a quello di molte altre.

Il mese di agosto vola e al pensiero delle arrampicate se ne sovrappone un altro ben più grosso: da anni mi curo un orecchio e, dopo temporanei miglioramenti, tutto ritorna come prima e non c’è verso di farlo guarire. Mi trovo così molto spesso a sentire solamente a metà. Cosicché decido di operarmi, sperando che tutto vada bene.

L’ultima salita la compio con Sandro: si tratta di una variante di uscita diretta al muro della Torre Winkel, un tratto di difficoltà estreme che mi impegna assai. In cima alla torre, dopo ore di lotta, mi sento per un momento contento, ma di colpo mi sento invadere dalla tristezza più profonda: devo dire per ora addio alle montagne nella speranza di poterle al più presto riconquistare.

Ed è così che il mattino del 29 agosto entro all’ospedale ed è per me una stretta al cuore. Mi sono portato per leggere alcuni libri di montagna, ma non ho voglia. Disteso sul letto, guardo il soffitto con lo sguardo lontano, malinconico. L’indomani mi operano ed il mio pen­siero è sempre rivolto lassù. L’effetto delle cure mi fa sentire debole, finito, mi sembra di non poter tornare più quello di prima. Conto le ore, i minuti, a strappi leggo il libro che mi hanno regalato. S’intitola «Passione di roccia» ed ogni volta che vedo la copertina un nodo mi riempie la gola.

Finalmente il grande ritorno: sabato, 20 di settembre, mi dimettono. Prima in autostop, poi con il treno, arrivo a casa fasciato ed imbacuccato. Nel rivedere le crode che circondano il paese mi sento commosso. Lunedì sono a Lignano: un po’ di mare come cura post-operatoria. Dopo dieci giorni sono incontenibile: rischio la rottura dei rapporti con i miei per la mia frenesia di ritornare in paese. Alla fine ci ritorno; non è trascorso un giorno che mi do già da fare per ritornare quello di prima: brevi camminate, poi brevi corse, alla fine allenamenti nella palestra di roccia. All’ultima visita di controllo il medico mi dà carta bianca per ritornare in montagna: manca poco che non gli salti addosso e lo baci!

E finalmente il grande giorno: assieme ad Emilio mi avvio verso la parete nord del Piccolo Mangart per salire la via Giacomuzzi-Cobai. Oltrepassata la For­cella Mangart, si scorge lontano, sopra le nebbie, la seconda metà del Diedro: mi ritornano le lacrime agli occhi. Infervo­rato, salgo velocemente a comando al­ternato con Emilio l’itinerario prescelto. Riesco anche a superare in arrampicata libera l’unico passaggio in cui i primi salitori avevano usato le staffe. Mi sento moralmente ricaricato.

Dopo alcune arrampicate autunnali, viene l’inverno. Io mi alleno in conti­nuazione. Per mantenere la forma, san­tifico la festa natalizia con l’invernale della via Mirta sulla parete est della Crepa di Pricot assieme a Luigi; quindi per la Befana attacco assieme a Titti la via Pesamosca sulla parete nord della stessa cima, ma la rottura del sacco da recupero ci costringe imprecando a riti­rarci. Ho riacquistato completamente la fiducia in me stesso e nei miei mezzi.

Ma in breve posso rendermi conto che la felicità è vana e fuggevole, come diceva Leopardi, e nel momento in cui mi sentivo rinfrancato il destino ha voluto se­guire una strada completamente opposta a quella sperata. Un mattino, alzandomi dal letto, mi assale improvvisamente un ronzio nell’orecchio opposto a quello operato e ogni mio tentativo di reggermi in piedi è vano, perché non riesco assolutamente a mantenermi in equilibrio. Aggrappato ai muri scendo in cucina ad avvertire mia madre. Nel pomeriggio il medico parla chiaro: è labirintite.

Diste­so sul divano, mentre guardo il soffitto che gira ad una velocità paurosa e trat­tengo a stento i conati di vomito, ascolto la telefonata tra mia madre ed il profes­sore che mi aveva operato. La voce di­sperata di mia madre mi fa presagire tutto: devono di nuovo ricoverarmi in ospedale. Sorretto dai miei genitori, ritorno il gior­no dopo in quell’ambiente in cui avevo giurato di non mettere più piede.

Disteso nel letto dell’ospedale, sotto continue somministrazioni di antibiotici, il mio stato d’animo muta dalla rabbia più assoluta all’afflizione completa. Sono ormai quasi rassegnato a non poter più arrampicare, a dover abbandonare quel tipo di vita che prediligevo. Ma Dio, perché devi essere così? Perché devi ro­vinare così la gioia di chi vuoi vivere? Per me la salute è importantissima e mi trovo ad esserne privato. Ma quelli che la sprecano, che la buttano nei vizi, nella droga e nella delinquenza, a quelli non gliela togli!

In un accavallarsi di questi pensieri, continuo a rodermi dentro, cercando un motivo di rassegnazione. Una sera, men­tre stavo mangiando a fatica, arriva Lui­gi, il compagno della via Mirta in inver­nale: un nodo mi stringe la gola e il rivedere un amico di montagna mette ancor più in evidenza la mia condizione. Parliamo di tante cose, alla fine di montagna; con lui mi sfogo e parlo di arram­picate, di emozioni provate, di pareti e di amici.

Appiccicato ai muri, lo accompa­gno fino al corridoio; poi lui se ne va camminando dritto come me una volta e con lui se ne va il mio mondo…

L’orecchio mi fa sempre più male, ma mi sforzo di tacere perché domani dovrebbero dimettermi. Alla sera decido di parlare; lascio che il medico mi visiti e alla fine si mette a brontolare: con un paio di pinzette mi estrae dal fondo dell’orecchio un pezzetto di cotone ed il male cessa subito.

Sul Mangart un’altra volta 

L’indomani lascio l’ospedale; l’infezione è spenta, ma l’equilibrio non ce l’ho più. In paese mi vergogno ad uscire perché rischio di cadere da un momento all’altro. Ma ora basta, sono stufo! Mi infilo la tuta e vado a correre lungo il sentiero che frequentavo negli allenamenti prima della malattia. Faccio due passi, cado, mi rialzo, torno a ricadere e mi ritrovo con la testa nella neve, sento che il cuore mi scoppia; ritorno a casa pieno di botte e barcollante. Ma l’indomani riprovo con due bastoncini da sci, per riuscire a mantenere l’equilibrio.

Alla fine della settimana riesco a riprendere gli allena­menti come un tempo. Ho paura, ma riprendo ad arrampicare, dimenticando lo studio; devo vincere me stesso, decido di ritornare in montagna.

È il 12 marzo 1978 e insieme ad Emilio mi trovo all’attacco delle prime rocce del Pan di Zucchero. Sono emozionato come dovessi fare un esame di scuola, ma ho molta più paura. Non ho problemi di equilibrio ma, appena arrivato in cima, mi ritornano. Comprendo quindi che ora, dopo aver vinto la malattia, devo vincere me stesso. Devo superare quei limiti che avevo raggiunto lo scorso anno. E il 28 di marzo e con le pelli sotto gli sci risalgo il vallone del Winkel diretto al­l’attacco della Torre omonima: voglio ripetere la via aperta assieme a Sandro lungo lo spigolo sud, che presenta due tratti con difficoltà estreme, non superabili con mezzi tecnici; è un gioco con regole fisse, non potrò certamente bara­re…

Mi sento solo, senza poter contare su nessuno; le uniche parole le scambio con la macchina fotografica che si inceppa spesso e volentieri. Rocce di media diffi­coltà mi portano alla base della fessura di quindici metri, primo tratto chiave della salita. In tutta la lunghezza, lo scorso anno ero riuscito a piantare un solo chiodo che, conficcato a metà, aiuta a mala pena a mantenersi in equilibrio; di un volo, neanche a parlarne. In spaccata raggiungo il chiodo e lì mi fermo. Potrei tornare indietro, ma non voglio; devo riuscire a vincere questo momento.

Ab­bandono il chiodo e con esso l’ultimo legame con la vita. Centimetro dopo centimetro, mi innalzo verso il termine della fessura con i muscoli ed i nervi tesi al massimo e raggiungo finalmente la fine. Ce l’ho fatta! …

La mia attività riprende così senza ostacoli e da solo ripeto anche la via sulla parete est del Monte Cavallo, finora la più difficile del gruppo. Alla fine di maggio salgo ai Laghi di Fusine con il binocolo. La parete nord della Veunza è pulita. Ignazio e Perissutti l’avevano superata nel ’56, reputandola superiore alla Lacedelli alla Cima Sco­toni. Io la salgo da solo il 7 giugno ’78, partendo al mattino presto da casa. An­che questa volta ci sono riuscito. Il giugno di quest’anno dovrebbe essere per me un mese speciale, perché a luglio ho gli esami di maturità. Nonostante ciò, ogni tanto devo scappare: tante cime, tante vie tutte da solo. L’esame mi va bene ed il mio pellegrinaggio tra i monti continua.

Decine e decine di salite con un solo scopo. Ho in mente un progetto che svelo solo ai veri amici: salire la parete del Piccolo Mangart in solitaria per una nuova via. Emilio non crede alle sue orecchie; Attilio e Luigi invece sono sicuri che ce la farò. È ferragosto, gior­nata di festa e di divertimento; in paese la gente pensa a come passare la serata, io penso a come passerò la notte. Sono circa le sette quando, in quattro, raggiungiamo i prati sotto al Piccolo Man­gart. Al contrario di quanto avessi cre­duto, sono calmo, stranamente calmo…

Alle prime luci del giorno saluto l’ami­co ed attacco le prime rocce, circa set­tanta metri a destra del fondo del gran Diedro. La roccia è compatta e sono costretto, causa le difficoltà, a recuperare il sacco reso pesante dall’attrezzatura da bivacco. L’itinerario si svolge esatta­mente come avevo previsto ed in poche ore riesco a raggiungere la cengia a metà parete. Ormai ogni contatto con l’amico è rotto, poiché la voce si disperde nell’aria. Fin qui ho battuto solamente un chiodo, benché la fessura del tratto sottostante si sia rivelata di ordine estremo; e tale è anche il camino sovrastante, così stretto da farmi progredire a forza di respiri e con la testa girata perché il casco non si incastri. Il recupero del sacco mi infastidisce assai, perché si incastra spesso e le braccia sono stanche. Il colatoio supe­riore si rivela come la maggiore difficoltà della via; sono costretto a piantare cin­que chiodi per superare altrettanti stra­piombi estremamente difficili. Verso la fine sono esausto; un’ultima fessura strapiombante e sono nel colatoio al termine delle difficoltà. Rivedo quella cengia sulla quale ero uscito un anno fa dal gran Diedro; recu­pero per l’ultima volta il sacco, la vista mi si annebbia, ho gli occhi lucidi. Ora sul Piccolo Mangart c’è una nuova via, estremamente difficile, tutta mia, non per egoismo ma per orgoglio…

Più tardi, a Camporosso, di fronte ad una pizza e tanta birra, rischio di avere nuo­vamente problemi di equilibrio ed anche gli amici hanno gli stessi sintomi; ma siamo sicuri: non è più labirintite.

Il racconto registrato si arresta qui. Meno di un anno dopo, il 12 giugno 1979 (*), durante una “libera uscita» dalla Scuola Militare Alpina di Aosta dove da sei mesi presta servizio militare, Ernesto Lomasti cade e muore mentre si sta allenando da solo su una via qualunque della palestra di Arnad in Val d’Aosta. Al momento dell’incidente era in corso nella località un furioso temporale. Il fulmine, probabilmente.

(*) Pubblicato in Scandere 80, annuario alpinistico della sezione di Torino del CAI, nel maggio del 1981

Alpine Sketches©2014
foto http://www.inmont.it