Arrampicare nella Città del VatiCAIano
Claudio M. Cremona
Arrampicare nella Città del VatiCAIano
Dove le vie del Signore sono infinite, dove è vietato calpestare i preti
e dove lo Spirito è forte ma la carne è meglio quella argentina.
Introduzione
Allo scopo di farmi perdonare qualche debolezza senile (scorreggiare in pubblico, scaccolarmi a tavola, slurpare quando mangio la minestra, avere messo in giro un paio di peccaminose guide di arrampicata nei quartieri romani), su consiglio di qualificati erboristi spirituali mi sono messo alla ricerca di quelle misteriose “radici cristiane dell’Europa” con cui preparare miracolosi infusi depurativi e corroboranti, capaci insomma di riportarmi sulla retta via.
Stavo perciò in erboristeria a frugare tra intrugli erbe pozioni polveri elisir spezie tisane unguenti distillati gemme essenze precipitati tuberi tinture semi alghe rizomi oli essenziali cialde e pomate, quando – di fronte a una boccetta di sali prodigiosi per lenire l’affaticamento delle estremità e contrastare l’ormai inarrestabile spetazzamento urbi et orbi mi tornarono alla mente certi itinerari percorsi in gioventù e che portano dritti dritti al cuore postpagano della Città Eterna.
A rischio di ricadere in uno dei peccati dal quale mi volevo redimere, ne ho raccolta qui la fedele descrizione a beneficio dell’ardito escursionista o del temerario scalatore che, passando Oltretevere per un happyhour, un’indulgenza plenaria o una commissione qualsiasi, voglia unire a mani nude l’utile e il dilettevole.
Gli errori e le eresie qui contenuti sono naturalmente solo miei e andranno ad aggravare il già pesante “rosso” che ho da tempo con il padreterno, aggravato trimestralmente da quell’autentica diavoleria che è la “commissione di massimo scomunicato”.
Invito quindi il lettore ad assumere le opportune cautele: indossato il nuovissimo cilicio antivento e divinamente traspirante in Santamariagoretex, avrà cura – leggendo queste paginette di battersi il petto con una certa continuità, magari lasciando la magnesite nel suo sacchetto.
Inverno 2011/12
Nota sull’Autore: l’autore ha ricevuto una dolomitica (nel senso di poco solida) educazione cattolica ed è recentemente inciampato in un congiuntivo scorticandosi da capo a piedi. La sua iscrizione al CAI in età ormai avanzata ne ha consigliato il pensionamento anticipato. Ogni tanto scrive una guida, ma non riesce mai a ritrovare dove ha lasciato gli occhiali o l’accendino.
Avvertenze: l’attività spirituale è inerentemente pericolosa. Questo
libro deve essere letto solo da persone addestrate e competenti oppure
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La religione dell’Arrampicata
Per avvicinarsi con lo spirito giusto e immergersi appieno nella sacralità dei pii luoghi oggetto di questa guida, sarà utile far precedere la descrizione degli itinerari nella Città del Vaticaiano da un breve compendio degli ultimi 50mila anni di storia.
I primordi
Dopo aver soppiantato ominidi concorrenti quali l’Australopiteco e il Neardenthal, che non salutavano, non spegnevano la luce quando andavano via e non si facevano la doccia dopo le sedute in palestra, circa 50mila anni fa, sul far della sera, un nostro giovane progenitore Sapiens fumò per sbaglio dell’erba e si ingozzò di strani funghi a pallini.
Per non farsi sgamare dai genitori piuttosto bacchettoni già a quei tempi, si rifugiò in una profonda caverna, aspettando che gli strani ma per niente disdicevoli effetti di quella roba passassero. Con la testa un po’ intontita si mise a dipingere sulle pareti balzane figure e a pronunciare misteriose cantilene.
Quando dopo qualche giorno si rifece vivo al baretto, annunciò di aver inventato un paio di cose che più tardi quelli del marketing ribattezzarono “arte” e “religione”. Incuriositi, gli amici lo seguirono nella grotta e sfumazzando trovarono che lì si stava davvero da dio.
Sentendosi più leggeri di testa e non essendo ancora del tutto privi di geni scimmieschi, i più temerari si misero a scalare le strapiombanti volte della grotta, inventando così un’altra forma di religione.
Il politirismo
Lasciata la caverna e riusciti all’aperto, i Sapiens passarono circa 40mila anni prima di combinare un guaio con l’invenzione dell’agricoltura. Nel frattempo, per ingannare la noia tra una battuta di caccia e l’altra, elaborarono una forma di religione arrampicatoria decisamente politiristica (battezzata dai paleoalpinistologi anglosassoni come multipitchism), che si fece nei millenni e secoli sempre più raffinata, raggiungendo i massimi livelli di sofisticazione nell’Europa ai tempi della civiltà grecoromana.
Tant’è vero che il politirismo è tutt’oggi definito come religione dell’arrampicata classica.
Il monotirismo
Stanco di lunghi avvicinamenti, ghiaioni, pareti nord, morene, zoccoli erbosi, mughi, zecche, freddo, alzatacce, bivacchi e frontali lasciate a casa, zaini pesanti, scorte d’acqua, ghiaccio, camini umidi e roccia marcia, nebbia e slavine, doppie che si incastrano, ramponi che si perdono, vestiti che si fradiciano, vento polare, fulmini e saette, relazioni fasulle, funivie che alle cinque smettono, nei deserti del Vicino Oriente qualche appassionato cominciò a pensare che era ora di cambiare e semplificare le cose per il bene dell’umanità intera e non solo di quattro sciamannati con la qippah.
E così fu inventato il monotirismo. Una religione semplice e immediatamente comprensibile, adatta al colto e all’inclita, all’aristocrazia e alle plebi. Con pochi articoli di fede: più tiri sono vietati. Il parcheggio più vicino è meglio è. La parete deve stare al sole o all’ombra secondo le stagioni. L’uomo domina la natura, e in particolare la roccia, per cui ci può fare tutti i buchi che vuole (principio dell’ “ubi falesia, ibi trapanatio”). Le vie si aprono dall’alto, anzi, dall’altissimo.
Il monotirismo non dimentica però che l’homo rampicans resta un povero peccatore e quindi ha da soffrire il minimo sindacale. Perciò, nella comodità della location, sceglierà di salire i tiri più duri e strapiombanti per manifestare la sua voglia di espiazione. E le scarpette da arrampicata, un dì comode pedule o robusti scarponi, diventano cilìci per i piedi, di almeno due numeri più strette del normale.
Solo il Capo ha diritto a comode pantofole. Che vanno persino baciate, pensa te.
Lo sontro finale tra politirismo e il monotirismo
I Romani, accaniti politiristi, dopo aver invaso le Dolomiti (Castrum Ampezzanum), decisero di andare a rompere i coglioni anche in Palestina, dove i locals se ne stavano tranquilli per i fatti loro a farsi crescere la barba, lapidare lo sfigato di turno e trastullarsi con il loro incomprensibile monotirismo.
L’invasione romana provocò lunghe code sulle strade, specie d’agosto, locande affollate, malumori e focolai di resistenza. Nella protesta si distinse in particolare un gruppetto proveniente dalla Galilea guidato da un giovanotto che lì per lì non si capiva bene se volesse fare la rivoluzione o no, ma che scalava davvero da dio.
Alla sua scomparsa, quelli della sua cordata andarono in giro qua e là a raccontarne vita morte e miracoli, talvolta banfando un po’, ma raccogliendo comunque un seguito crescente tra quelli – ebrei o gentili che fossero – che si erano stufati della solita solfa, di pagare la quota del CAI e in particolare dell’obbligo di portare i calzoni alla zuava e gli scarponi chiodati anche ad agosto, a mezzogiorno, in pieno deserto del Neghev.
Nell’Urbe per un po’ i monotiristi furono costretti a praticare la loro attività in buie e umide palestre sotterranee, per sfuggire all’arroganza dei politiristi che si divertivano a impalare chi si rifiutava di andare oltre la catena del primo tiro. Poi piano piano fecero proseliti finchè Costantino dall’alto dei suoi oltre due metri di statura (imperatore c.d. “fisiologico”) impose tolleranza nei confronti della nuova comunità e donò alla confraternita monotirista romana (“donazione di Costantino”) la falesia di Ciampino.
Ci volle poco perché il monotirismo divenisse religione ufficiale dell’Impero, insomma alpinismo di Stato. I politiristi resistettero colle unghie e coi denti, ma crescenti masnade di assatanati monotiristi munite di chiavi dell’otto e del dieci misero a spiastrinare dal secondo tiro in su in tutte le Province, dalla Gallia alla Pannonia, dal Vallo Adriano alla Partia.
L’Accademico Flavio Giuliano Imperatore poco potè fare nel suo breve regno per ripristinare l’antica fede e pratica politirista. Verrà spregiativamente bollato come l’Apostata anche se avrebbe meritato l’appellativo di Asostata.
Teodosio alla fine del quarto secolo bannò definitivamente i residui di politirismo (anche se come al solito delle sacche rimasero, e con parecchio materiale dentro) e – visto che c’era con una Circolare pubblicata su “Lo Scarpone” impose il Credo di Nicea a tutto l’Impero, mettendo così fine agli infiniti litigi tra cristiani che – non contenti di aver preso il potere stavano a spacca’ il capello su tutte le questioni, soprattutto sull’esistenza o meno dei gradi, creando piamente quotidiani disordini e mattanze.
Così più o meno, dopo altre fasi sanguinolente, torture e abbruciamenti, guerre crociate anatemi inquisizioni scomuniche e massacri, distruzioni di tutto ciò che puzza soltanto di politirismo eresia e libero pensiero, nonchè ogni tanto qualche buona azione, arriviamo ai giorni nostri che neanche ce ne siamo accorti.
I più importanti Concili
Finito di bruciare e demolire quanto la saggezza umana aveva faticosamente creato nei secoli precedenti, i monotiristi furono costretti a inventarsi un passatempo di contorno quando pioveva anche sotto gli stapiombi e cominciarono a riunirsi per giocare a una specie di gioco della torre. Nascono così i concili, le cui date corrispondono ad annate particolarmente inclementi dal punto di vista meteorologico e spirituale.
Concilio di Chamonix.
Decise che i francesi sono il popolo eletto dell’arrampicata. Gli inglesi (ma anche gli americani che però non erano stati ancora scoperti) protestarono e mandarono i gurka, ma senza successo. Senza scomporsi più di tanto gli inglesi andarono dall’avvocato e brevettarono il protestantesimo, aggiungendo in un codicillo scritto piccolo piccolo che si ascende alle vette dello spirito senza protezioni fisse.
Concilio di Ailefroide
Condannò i protestanti, perdendosi però per strada gran parte del clero tedesco che aveva le sacrestie piene di staffe e chiodi a espansione. Si irritarono anche gli italiani, che avevano già prenotato tutte le birrerie di Trento per una controriforma comesideve: si dovettero accontentare di un festival cinematografico.
Gli inglesi ci fecero sopra due risate: non solo concessero al re di divorziare, ma nominarono Arcivescovo di Canterbury il direttore dell’Alpine Journal.
Concilio di Briancon
Ribadì con fermezza la condanna dei protestanti, perdendo per strada stavolta gli sfizzeri, che avevano i forzieri delle loro banche pieni di luccicanti spit nuovi di zecca; cazziò i trentini e si sbrigò a mandare al rogo prima della scadenza dei termini alcuni selvaggi dell’est europa che reclamavano la loro esistenza facendo cose un po’ fuori di testa.
Concilio di Kalymnos
Mise fine definitivamente a ogni residuo trad, con il documento “De Falesiis”, che regala il 6a a tutti senza bisogno di confessarsi o farsela a piedi fino a Santiago de Compostela.
Concilio di Ceuse
Con la famosa bolla “De Topis” impose l’approvazione ecclesiastica o del CAI prima della pubblicazione di ogni guida escursionistica o di arrampicata.
Concilio di Ripa Majala
In fuga da Viterbo scoperchiata, questa pia riunione si tenne nella ridente località tirrenica tra la fanga dell’avvicinamento, gli autovelox dell’Aurelia e le blasfeme pareti insozzate da scomunicate e apostati vie d’arrampicata, che fu necessario far benedire più volte da un accademico esorcista prima dell’inizio dei sacri lavori.
Il consesso non andò oltre la pure importante decisione di ammettere quale unico metodo di progressione ortodosso quello “a triangolo”, tenuto conto dell’ormai assodata iconografia monotirista e trinitaria.
Non si riuscì invece a trovare l’unanimità della dottrina sul successivo e fondamentale passo, vale a dire l’adozione del triangolo con bilanciamento. Nonostante gli sforzi profusi da Padre Caruso da Shangai, autentico regista occulto di tutta l’operazione, una sparuta minoranza di fedelissimi della tradizionale “sfalsata” e dell’antiquata posizione a ranocchia riuscì a bloccare questa innovazione rivoluzionaria, insinuando tra l’altro che certe argomentazioni in favore del bilanciamento puzzavano un po’ troppo di pericoloso sincretismo religioso, specialmente estremo orientale.
Concilio di Chamonix II
Riportò un po’ di sano ordine nella legislazione canonica dell’arrampicata, promulgando i seguenti documenti:
De Chiodo removendo
De Ferrata et Ferratellis (melius quandum appoena sfornatibus)
De Sostis cum Protectiones Tres vel De Securitate
De Ascensione sine fixa Protectione
De Solitaria Arrampicatione Sine Canapone
De Scarponibus non Scordandis
De Bivacchis Improvvisatis
Sanctissimi Mezzi Poldi vel De Recuperatione
Parancatio Sodalis quis Incrodatus Est
De Fettucciis atque Cordinis Usuratibus
De Quinta Positione Aevitanda
De Cordata cum Infidelibus
Quia in difficultate Deus vel Maria vel Omnes Sancti non nominandi Sunt
De controllatione nodorum
De pedibus piactis supra ghiacciaium
Ubi et Quomodo in falesia defecare vel orinare
Noli fregare attrezzaturam
De Conservis
Avvicinamento alla Città del Vaticaiano
L’avvicinamento alle pareti di questo grandioso massiccio, dominato dalla basilica di San Diedro, meta di un incessante pellegrinaggio da tutte le parti del globo, è tra i più spettacolari del mondo.
Lo sventramento del Borgo e la sua sostituzione con una lunga e ampia morena glaciale proprio di fronte alle pareti (ghiacciaio della Conciliazione) ha per sempre cancellato l’incredibile colpo d’occhio che si aveva giungendo al pianoro terminale sbucando improvvisamente da uno dei mille stretti e puzzolenti canaloni circostanti, spesso intasati di monnezza, indulgenze scadute e cordate in precipitosa ritirata, ma guadagnando le pareti ancora oggi si sta inevitabilmente col naso all’insù.
E qui viene fuori accanto alla spettacolarità la pericolosità dell’avvicinamento.
I pericoli infatti non vengono dall’alto, ma dal basso: portafoglio, macchinetta fotografica, borsette varie, telefonini hanno in questo pio luogo una certa misteriosa tendenza a cambiare proprietario. E’ vero che bisogna spogliarsi dei beni terreni per guadagnare il regno dei cieli, ma evidentemente certi individui non sono stati ancora illuminati dalla grazia, che come al solito ha lasciato a casa la frontale, e perseverano nell’errore.
Anche in parete non dimenticate niente e occhio quando fate sicura al compagno. E’ bella la parabola della moltiplicazione dei friends e dei nuts, ma qui impera la sottrazione. Estote parati non fu mai più saggio avvertimento all’alpinista pellegrino in visita ai sacri luoghi.
Ci si avvicina all’attacco comodamente in bus, auto, taxi ma anche a piedi e in questo caso, prendendola un po’ alla lontana, si consiglia di percorrere un itinerario decisamente a tema, Via della Croce, 12 tiri piuttosto faticosi che si snodano accanto ai resti di quella che fu una delle migliori birrerie della capitale.
Più a est è invece possibile percorrere un’Alta Via piuttosto interessante per la varietà dei contesti storici, snodandosi essa tra Via Tommaso Campanella e Via Gerolamo Savonarola.
Qualche sudamericano insiste nell’approccio da Viale Marx, ma è decisamente scomodo, soprattutto il venerdi sera. Per questo viene frequentemente scomunicato.
Guadagnato finalmente il plateau terminale, si ammirano le splendide falesie che lo abbracciano ai lati. Enormi cannelures simili a colonne sono diventate una palestra di verticalità, un vero e proprio inno al monotirismo, argomento su cui si è accennato in precedenza.
Di fronte, una serie di elementari gradoni portano all’attacco della mastodontica parete est, che pare proprio la facciata di una Basilica, sormontata com’è da un cupolone quasi perfetto e ben appigliato che porta con facile estasi alla vetta.
Soffermandoci però un momento sui gradoni, facendo attenzione a non scivolare sugli sfasciumi di minuto e mobile pensiero unico che li ricopre, sarà utile fermarsi sulla parte sinistra (faccia a monte) in un minuto in raccoglimento, ricordando che qui – in periodo premonotirista veniva celebrata, ogni ventotto di marzo, la festa di “Initium Caiani”, vale a dire l’iniziazione dei nuovi sacerdoti della Magna Mater in un tempio consacrato da Caio Caligola.
Il settore del “Colonnato”
Nel settore di destra del cosiddetto “Colonnato” si contano decine di monotiri assai verticali, che sono stati aperti e attrezzati nel corso dei secoli da generazioni di monotiristi. Tuttavia, il merito maggiore va ascritto ai seguaci di tal S.Francesco di Fales, a tutti noti come i “Falesiani”.
Tra i tiri più interessanti vanno menzionati (da dx a sin):
“Santa Tacca da Nunciarìvo”, 25m, 6b+, aperta dall’alto (e te pareva) e con protezioni molto lunghe. La via segue le pronunciate cannelures a fianco dell’evidente salsicciabus color della senape parcheggiato sulla morena dai tempi della scomunica dei comunnisti. La partenza è piuttosto dura, su untume di pellegrini che si appoggiano alla base della via, per poi regalare una bellissima arrampicata fino a tre quarti della via, dove un atletico boulder consente a chi è abbastanza lungo di arrivare a una bella tacca che conclude le difficoltà.
“Santa Madonna del Riposo”, 21 mt, 7a. Via molto verticale, liscia, atletica e faticosa che peraltro attrae gli adepti della sofferenza e dell’espiazione. Parte sulla destra del bussollotto delle indulgenze, sfruttando le debolezze della carne, sale dritta a una fessurina, aggira un pulpito, rimonta una predica e punta a una grotticella subito sotto il passo chiave. Qui una statuina indica che si può riposare senza fare peccato prima di affrontare l’uscita strapiombante davvero impegnativa. Giunti in catena, i più bravi si flagellano la schiena a sangue intonando i Salmi.
“Santo Buchetto da Cala Gonone”, 20m., 5c. Bella via di aderenza su calcare da favola, cosparso di buchetti per le dita. Quando piove molti pii arrampicatori ne approfittano quasi fosse un’acquasantiera.
“Beata Placca Larenzia”, 15 m.6a. Si sviluppa su una liscia colonna rigata da bei rivoli dove si va su di piedi. E’ una delle vie obbligatorie per i seminaristi monotiristi, senza la quale difficilmente si passano gli esami. Per questo è molto ripetuta e la gran parte degli esaminandi se la tiene per ultima e si porta con sé la tesi già rilegata per impietosire il padre esaminatore.
“Santo Strapiombino da Grottaminarda”. 15 m.,7b+. E’ l’altra faccia della colonna della via precedente. La colonna, infatti, pende da una parte. Da questa è una via strapiombante, con appigli al posto giusto per chi ja fa.
“Beate Sorelle della Continuità” 35 m. 6a+. Bella via realizzata unendo con la sika due colonne una sull’altra, tanto per avere un tiro un po’ più lungo del solito. Il tettuccio a metà, punto di unione delle colonne ne rappresenta il passo chiave, superabile peraltro grazie ai buoni appigli offerti dal capitello corinzio appena sotto il tetto medesimo. La seconda parte richiede appunto continuità, e alle sue devote sorelle e ai fratelli dell’omonima Congregazione il tiro è dedicato. Attenzione, è necessaria la corda da settanta metri, altrimenti tocca salire sul terrazzone sopra il Colonnato e dirigersi a sud (ometti, pretini, suorine) per tornare alla base.
“Il martirio di San Sebastiano”, 15m., 8a+. Qui salgono quelli forti. Via breve ma decisamente difficile che va affrontata oltretutto in grande velocità per schivare le frecce dei buontemponi che si divertono a bersagliare i climbers. Ai piedi della via, i resti mortali di molti che non sono stati abbastanza veloci consentono di partire dal secondo spit, ma – come detto – il duro viene dopo.
Al centro della vasta morena, si staglia un magnifico obelisco con elegante arrampicata su geroglifici. Seguire le figurine per individuare le prese buone. Piedi liberi, di sguincio.
Passando al settore di sinistra del “Colonnato”, meritano di essere segnalati:
“Quattro Santi in Padella”, 28mt, 8c+. Via dedicata a quattro missionari finiti fuori via e precisamente in un enorme e bollente padellone messo sul fuoco da indigeni maleducati e colle scorte ridotte al lumicino.
“Autofocus di Sant’Antonio”, via da quasi zero a infinito e diaframma a piacere a seconda della profondità di campo che aggrada all’intrepido scalatore. E’ una classica via del tipo “point and climb”, tu vedi una via, premi un bottone e sei lì già che sali senza farti tanti cazzi di pensieri che grado sarà la corda è abbastanza lunga gli spit sono arrugginiti la catena sarà a posto il moschettone si aprirà ce la farò e così via. Come quasi tutte le vie del gruppo, è piena zeppa di crux. Ha il vantaggio che poi con fotosciòppete te la metti a posto come ti pare e puoi anche raddrizzare l’orizzonte.
L’uso del diaframma al di fuori della fotografia da queste parti è assolutamente vietato.
Vedi per questo la via seguente.
“O Gino o Knaus”, detta anche la “Via dell’Unico Metodo Accettato”, molto praticata dagli arrampicatori credenti in certi giorni fatidici. Si sviluppa lungo una bella fessura obliqua con difficoltà contenute ma continue, stando attenti a non toccare la catena terminale sennò si fa peccato e la famiglia si allarga. Viene chiamata così perché non si sa se l’ha fatta prima Gino (il barbiere del Borgo) o Knaus (una guardia sfizzera).
San Diedro e le Dolomiti di Sisto
Contornata dalle falesie del c.d. “Colonnato”, la gigantesca parete est del complesso Vaticaiano si impone in tutta la sua bellezza e magnificenza.
Essa è nota in tutto il mondo come “San Diedro” e il gruppo che sovrasta viene descritto comunemente come “Dolomiti di Sisto”.
A proposito di Sisto, per molto tempo ci si chiese fra monotiristi se si poteva andare oltre il Sisto. Finchè un Tizio di Settimo Milanese disse che si poteva fare tranquillamente e che al suo paese anzi si faceva tutti i giorni.
Enrico VIII fu poi la rovina definitiva, almeno così si pensava, fin quando il compositore Luigi Nono portò ancora più avanti il livello di difficoltà tanto che provate a capirci qualcosa della sua musica.
Nel giro di pochi decenni comunque – vedi come la teologia progredisce al passo coi tempi fermarsi al Sisto è divenuto oggetto di scherno e fin qui nulla di male, ti prendi un pernacchio e finisce lì. Ben peggio, fermarsi al Sisto è divenuto motivo di reprimenda. Tanto che i monotiristi hanno deciso di bollare come “plaisir” e quindi inerentemente peccaminoso l’indugiare su basse difficoltà.
I confessionali di mezzo mondo sono pieni di pii monotiristi in fila per confessare di aver messo le mani su un 4b o un 5°, o addirittura di averlo desiderato o soltanto incolpevolmente sognato di notte, dopo aver mangiato e bevuto pesante compiuto atti impuri e magari detto qualche parolina fuori posto contro santi e madonne.
Manco a dirlo, il primo a scalare San Diedro fu un inglese, accompagnato da pie guide del vicino Borgo alimentate a vinello di Frascati e con le ciocie ai piedi. Poiché il tipo era di religione anglicana, la cosa non andò giù alla Curia, non essendo buona cosa che un eretico si aggiudicasse tale primato. Fu così che venne messa in giro una leggenda, secondo la quale ben prima dell’eretico alcuni cacciatori di indulgenze della Ciociarìa si fossero arrampicati su su fino alla cima del Cupolone.
L’eccezionale numero di tiri che nei secoli sono stati aperti su questa immensa parete giustificano il famoso detto che “Le Vie del Signore sono infinite.”
La Biblioteca Vaticaiana
Finito di arrampicare, per chi ancora è capace di leggere una visitina alla Biblioteca Vaticaiana è quasi obbligatoria. Svariati chilometri di scaffali contengono infatti un autentico patrimonio di testi di inestimabile valore, nonché il ricercatissimo inventario di tutti gli schemi di sudoku pubblicati nel mondo, tranne quelli classificati “Diabolico” dal Corriere della Sera (quelli stanno in un archivio a parte e ci vuole un permesso speciale della Curia per poterli consultare).
Nel piano seminterrato della Biblioteca, dove comincia l’itinerario del pubblico, c’è un ampio settore epigrafico e lapidario, dove sono raccolti celebri esemplari di scrittura su pietra e su legno, tra i quali vanno ricordati:
un bollo rosso su sercio della Val Vattelappesca, considerato di anonimo ma al bar del paese sanno tutti chi è stato;
un freccione rosso su lastra di granito del Monte Nonmiricordo che non porta da nessuna parte;
una scritta in pennarello nero su sasso alla base della Via Nomeaccazzo recitante “Se questo x’è 6b mi son el Papa”;
un pezzo di legno in cima al comodo Col del Finesettimana con la scitta “Marco ama Gigia”;
un rarissimo segnavia Cai su pietra con un numero di cellulare al posto del numero del sentiero;
una serie di sassi su pratone della Val Ndostà organizzati in modo da formare una parolaccia irripetibile (la si legge benissimo da un finestrone in cima al Cupolone);
un graffito inciso con piccozza su sercio terminale del difficilissimo Spiz dell’Agonìa recante la dicitura “Fanculo”;
scritta su scatoletta infissa su palo lungo il sentiero degli Sfaticati: ”Questa la g’ho magnà mi”;
Tra gli antichi testi conservati dalla Biblioteca, spiccano tesori quali l’edizione originale delle “Concessioni di Sant’Agostino”, relative come noto ai permessi di arrampicata sulla famosa spiaggia del litorale laziale tra Gaeta e Sperlonga.
Seguono rarissimi esemplari risalenti al paleomonotirismo o al politirismo agonizzante:
pergamena del III secolo con il testo integrale dell’”Adversus Funivias”, di anonimo cadorino convertito, che si scaglia contro i pagani ferventi sostenitori dei mezzi meccanici utilizzati per avvicinarsi ai loro diabolici itinerari di più lunghezze;
il testo del IV secolo “De Recta Via”, che si rivolge al vescovo romano affinchè con la sua autorità impedisca definitivamente i traversi, fonte di ogni male;
il famosissimo “De Bona Novella Apud Infidelibus”, che racconta dettagliatamente l’opera di monotirizzazione portata avanti con fermezza (“bocciarda in guanto di velluto”) nelle province del nord e dell’est europeo;
una glossa tardopagana all’opera di Cesare: “Gallia divisa est in partes tres: Ceuse, Ailefroide e Chamonix”.
Tra le miniature esposte nel grande salone seguente meritano sicuramente un’occhiata la relazione originale su pergamena finemente illustrata delle vie “Direttore Democratico” e “Bob Rock”, all’epoca tra i quarti gradi più famosi nel territorio dell’Abbazia di Montecassino.
Accanto, uno splendido incunabolo raffigura l’ardito percorso di “Attenti alle Clessidre”, allora considerato il vertice delle difficoltà nei territori della diocesi teramana.
Influssi fiamminghi sono invece evidenti nella potente illustrazione della “Via del Martello”, ove diaboliche figure appollaiate negli anfratti e nelle pieghe accanto alla via sottolineano l’arditezza del percorso, la sua pericolosità, l’eroismo del salitore proteso verso la vetta.
Verso la fine della Biblioteca, una sala rigorosamente controllata in fatto di temperatura luce e umidità conserva i preziosi registri del Cai con i pagamenti delle quote dal 1475 fino alla presa di Porta Pia.
All’uscita della Biblioteca è obbligatorio passare per una lunga strettoia, sui fianchi della quale è infisso il celebre Index Viarum Prohibitarum. Funziona così: quando una via oltrepassa un certo limite etico e morale, la si mette all’indice. Si tratta di vie ben aldilà del plaisir, sulle quali si può sempre chiudere un occhio e cavarsela con un pateravegloria; sono vie decisamente contrarie alla morale cattolica e all’insegnamento delle Scritture e dei Padri della Chiesa.
I Musei Vaticaiani
Conclude la visita a questo straordinario massiccio, formatosi oltretevere nella raffinata indifferenza dei pagani dell’epoca, una capatina ai Musei Vaticaiani, prestigiosa raccolta dell’arte arrampicatoria mondiale.
Il giro si può fare anche senza guida. Se invece volete proprio la guida vi costerà un occhio.
Nella bella sala d’ingresso l’escursionista è accolto dall’imponente fila di statue raffiguranti i presidenti del Cai, individuabili per l’aquilotto che ne nasconde pudicamente le parti sconce.
Nella sala seguente, al centro domina la famosissima statua del Laocoonte che lotta senza successo con due corde incastrate.
Un bel portone ricavato dalle rovine di un bivacco in quota porta poi alla Cappella Sistina, dove di solito si va ad arrampicare quando fuori sul sagrato piove. Occorre fare attenzione a non disturbare gli affreschi; i custodi sono piuttosto pignoli e controllano che abbiate lasciato al guardaroba il sacchetto con la magnesite.
Da un corridoietto ci si affaccia alle Stanze di Raffaello, dove si ammirano gli splendidi affreschi, tra i quali ogni montanaro che si rispetti ammirerà la “Scuola di Cortina d’Ampezzo”, celeberrimo ritratto dei grandi dell’arrampicata di tutti i tempi. Bonatti si capisce subito perché dice delle parolacce a uno più in basso travestito da capospedizione. Messner pure, perché allontana il maligno raffigurato sotto forma di bombole d’ossigeno. Mallory non si trova ma dicono che c’è, nella parte alta dell’affresco. Bonington è quello che vince il Freney appoggiandosi per il passo finale sulle spalle di Piussi. Maestri è quello che si aggira nell’affresco alla ricerca di una presa di corrente per il suo trapano. Edlinger e altri giovanotti paiono proprio dei paggi rinascimentali. Non c’entra niente ma sullo sfondo c’è anche, nella nebbia, la scialuppa di Shackleton.
Ritornati al Museo, nella sala dei fiamminghi c’è un bel Bosch che rappresenta i luoghi diabolici tra i quali il campo base dell’Everest, la capanna Vallot e il grottone dell’Arenauta.
C’è anche una vasta sala con reperti egizi, tutti dedicati all’arrampicata in laterale.
Per gli amanti delle cose antiche, la sala del periodo cuneiforme offrirà un interessante testimonianza di come si faceva prima dei bong e dei friends.
Si accede poi allo straordinario ambiente che ospita l’opera forse più significativa ospitata nei Musei Vaticaiani.
Il Martirio di San Seicaiano
Il turista è ora di fronte al pezzo forte dei Musei, una delle opere più note e significative dell’arte monotirista rinascimentale, di autore ignoto e pertanto attribuita a qualche nome famoso dell’epoca almeno una volta l’anno.
Il quadro, decisamente grande (due lunghezze per una lunghezza), occupa in splendida solitudine la grande parete sudest della sala dei Proconsoli del CAI e vi si accede tramite un comodo corridoio attrezzato nei punti più esposti e trafficati dal viavai di visitatori, esperti, perdigiorno e gente capitata lì per caso, magari senza le calzature adatte.
Vi si rappresenta la tragica fine di San Seicaiano, per capire la quale occorre premettere a chi non lo conoscesse l’antefatto così come tramandatoci dagli scrittori delle vite dei santi monotiristi.
Seicaiano era un semplice elettricista di religione pagana e alla sua nascita nella bergamasca gli era stato imposto il nome di Caio M. Dipolus. Diplomatosi in una scuola a distanza, nel senso che a scuola non andava quasi mai e il diploma lo aveva comprato grazie a certe entrature del padre, non per questo non si rivelò un onesto artigiano, anche se per la verità pochi all’epoca capissero che caspita di mestiere si era andato a cercare.
Passata la maggior parte delle giornate seduto su un muretto in attesa di scorgere all’orizzonte la camionetta dell’Enel, esauriva poi le residue energie nel suo passatempo preferito che era il calciotto.
Durante una trasferta della sua squadretta, sulla via del Comasco, ebbe un’illuminazione. Pensò che fosse la volta buona, ma poi a ben vedere si trattava dell’apparizione, alta sopra le nuvole, di una immagine decisamente misteriosa: un otto inseguito.
Si confidò con uno dei compagni di squadra, che guarda caso era un monotirista, ma Caio non poteva saperlo in quanto gli adepti della nuova religione si tenevano in disparte per i fatti loro alla larga da quegli spaccamaroni di politiristi.
Solo quando i due si ritrovarono lontano da orecchie indiscrete, il compagno spiegò per filo e per segno il significato dell’apparizione.
Per Caio fu una rivelazione. La sua vita aveva finalmente un senso e uno scopo. Con un gesto decisamente teatrale gettò via le scarpe da calcio e si fermò al Decathlon più vicino per acquistare l’attrezzatura fondamentale del monotirista.
Non ci furono feste e domeniche, fine settimana e pomeriggi liberi dal muretto che Caio non corresse nelle più sperdute e isolate falesie per manifestare la sua voglia di arrampicare.
Fin quando un drappello di politiristi della locale guarnigione non pensò bene di andare a fare un po’ di addestramento proprio nelle vicinanze di una falesietta dove Caio si allenava nella ritenuta discrezione più assoluta.
Gli eventi precipitano e ci portano alla location del nostro quadro.
Caio Dipolus è incatenato alla croce di vetta di un anonimo cocuzzolo delle Orobie. Ai suoi piedi un manipolo di pagani politirsti sghignazza, sbevazza e insolentisce il povero elettricista in croce. Il più scalmanato dei torturatori, quello che pare essere uno di alto grado perché veste i calzoni alla zuava, gli urla beffardo qualcosa. Qualcosa che l’agiografia del santo martire ci dice essere pressappoco “Sei Caio o sei Caiano?”, condito da sberleffi, pernacchi e vaffanculi, accompagnati da lancio di pietre, scatolette di carne e oggetti vari lasciati sulla cima dalle torme di merenderos nei finesettimana.
I torturatori proseguono, ci dicono i testi, a fare violenza al povero Caio con subdole avances: “Perché non torni a giocare a calciotto e dimentichi questa insana follia del monotirismo?”. “Rinuncia alla moulinette e alle scarpette, e noi ti libereremo”.
Caio è di fronte quindi alle tentazioni di Satana e siccome non beve una birretta da almeno cinquesei ore è lì lì per cedere al Maligno e alle sue malìe.
Ma ecco, si vede benissimo in uno scorcio lontano del quadro, seminascosto da un ripetitore tv (Raitres, mi sembra di ricordare), un araldo suonare le note di un annuncio pubblico assai importante, da diffondere per tutte le valli e le campagne, sulle cime dei monti e in mezzo al màr.
E’ il famoso editto di Costantino che impone a schiaffoni la tolleranza nei confronti dei monotiristi. Il quadro ora cambia sotto i nostri occhi, pare strano ma è così e chi se ne va via prima si perde il meglio della storia. Un po’ incazzati i legionari raccolgono distrattamente le loro cose, fanno pipì, mugugnano “proprio ora che ce stavamo a divertì”, giocherellano con le pietre che volevano lanciare al nostro Caio e profferendo un ultimo maestoso “masticazzi” prendono e abbandonano la cima.
Caio resta lì legato alla croce di vetta, ammaccato e sanguinante e in preda al rimorso per aver quasi ceduto alla tentazione. E’ confuso, e praticamente si accorge che i suoi torturatori se ne sono andati quando ormai è troppo tardi. Li richiama, stronzi, slegatemi, ve possino. Poi piano piano si rende conto che comunque gli è andata fin troppo bene, ha avuto culo e ci poteva lasciare le penne una volta per tutte.
La fortuna pare decisamente arridergli, perchè una torma di monotiristi in festa per l’editto costantiniano si dirige cantando e pregando, fischiando e spetazzando proprio verso la cima dove Caio attende in croce di essere liberato.
Rinfrancato, il giovane urla con quanto fiato gli è rimasto in corpo “Ehi, compagni!”.
“Compagni? Che cazzo vuole quello là?” dice uno dei nuovi arrivati, che deve essere un capo anche lui perché ci ha i calzoni alla zuava, colle bretelle, ma sempre alla zuava. Guadagnata la cima per facili roccette si rivolge a Caio e gli fa “Cazzo ci fai lì, a occupare una croce di vetta, che ce l’abbiamo messa noi e per ragioni che neanche ti sto a spiegare. Chi ti ha dato il permesso, eh?”.
Inutili le implorazioni di Caio di slegarlo. Il quadro si fa oscuro. Occorre mettere delle monetine nelle macchinette per vederci un po’ chiaro. I testi, intanto, ci aiutano e ci dicono che il poveretto racconta la sua terribile disavventura coi politiristi. “Allora sei caiano” conclude il capo, seguito da un “buu” dei suoi confratelli. E subito l’ideologo del gruppo si avanza. Si aggiusta gli occhialetti alla John Lennon, stringe al petto il sacro testo e nel silenzio generale chiede a Caio:”Se sei caiano, spiegaci come si fa il cordino da ghiacciaio” (risate e strizzatine d’occhi ben visibili nei personaggi del quadro. Qualcuno da una robusta gomitata in pancia al vicino che cade giù nel burrone cantando un salmo).
I legionari romani avevano lasciato un po’ di materiale nei dintorni e così, di fronte al silenzio di Caio circa il cordino, qualcuno pensa bene di scoccare una freccia all’indirizzo del malcapitato sulla croce.
La vista del sangue sembra incrementare l’attenzione anche dei meno partecipi (“ahò, è la prima vorta che vengo quassù e succede qualcosa di interessante”, così riporta l’agiografo). Scosso da un tremito, l’ideologo aguzza gli occhietti e domanda sibilando “Da quant’è che non leggi più lo Scarpone?” e in quella un nuovolone nero oscura il sole. Tuoni fulmini grandine. Il povero Caio, ormai Seicaiano, è ridotto a un eccehomo, pesto, sanguinante e ferito. Altre frecce lo colpiscono, qualcuno urla forte “Io ‘o leggo tutti i nummeri d’o O Scarpone anche se nun zo’ legge. Guardo ‘e figure e chiedo ar paroco”. Altre domande fioccano come un turbine, il corpo di Seicaiano è squarciato dai dardi. Rimane attaccato alla vita per un nonnulla. E qui, mentre il terremoto squassa le valli (si vedono lontanissimo nel quadro i prefabbricati che si fanno strada verso il cratere), il domandone finale: “Ma tu, il tallone, lo tieni alto o basso?”. Seicaiano non ha più forza vitale, la bocca è impastata di polvere e sangue (manco Mel Gibson, minghia), sono almeno otto ore dall’ultimo spritz. Non può rispondere. E l’ultima freccia fatale lo colpisce allora al tallone, che non si saprà mai se era ortodosso oppure no. Manco l’agiografo ce lo spiega.
Il quadro è sempre più denso e oscuro. “Ndiamo via”, grida qualcuno, “Veloci, scendiamo che c’è la diretta a reti unificate dell’Imperatore che spiega l’editto”. In lontananza qualcuno domanda “Chi ci ha Sky?”.
Si spengono le luci e i custodi accompagnano all’uscita gli ultimi ammiratori di questo autentico capolavoro.
Il settore etnografico contiene anche la riproduzione a scala naturale di un rifugio di alta montagna, grazie all’impegno del personale del museo che quotidianamente porta al rifugio scarponi maleodoranti, calzini fetenti, biancheria tecnica e non ma comunque puzzolente, cucina pentoloni di crauti aglio e cipolla e intasa con cura il cesso alla turca, ricreando così le amene condizioni di un luogo a diretto contatto con la natura. A sera, nastri registrati riproducono fedelmente in hometheatre triplo Dolby Surround tuoni ravvicinati, scariche di pietre, slavine, rutti, scorregge, russamenti e digrignar di denti.
Per assicurarsi che qualcuno vada a vedere il Museo, i proprietari hanno dovuto acquistare almeno un Caravaggio da offrire alla cuoriosità del pubblico. E’ un bellissimo notturno in una notte senza luna all’interno del bivacco Craveri. Manca il solito raggio di luce perché il Caravaggio prima di terminare il quadro dovette fuggire lungo la cresta del Peuterey, inseguito dal recupero crediti dell’ente elettrico.
Usciti dai Musei, sulla via del ritorno alla grande morena antistante la parete est, si passa per caratteristiche goulottes abitate da alcune confraternite che conviene ricordare.
Si incontrano per primi i Lefevriani, a tutti noti per il loro attaccamento al passato (infatti quando parlano non usano mai il tempo presente o il futuro e quando si avventurano in un imperfetto si grattano i coglioni perché potrebbe portare male), che si riconoscono subito perché scalano rigorosamente in latino, indossano esclusivamente calzoni alla zuava, portano gli scarponi chiodati anche quando fanno la sauna, arrampicano con i guanti (in quanto a mani nude è peccato) e quando si riuniscono di nascosto dai superiori il massimo che sanno fare è cantare in gregoriano “Un mazzolin di fiori” briachi fradici.
Seguono poi i Frati Trekkisti, che nel più assoluto silenzio (sono ammesse solo le parole “blocca” “cala” “libera” “puoi salire” “sale la” e poi si può dire un colore possibilmente corrispondente a una delle corde in uso) si flagellano portando in spalla degli zaini di dimensioni e peso mostruosi per distanze che ucciderebbero un mulo.
I Frati Minori si ostinano ad arrampicare o fare addirittura del misto con semplici sandali (di tre misure più stretti), però solo su difficoltà col segno meno: terzo meno, quarto meno, quinto meno e così via. Solo il padre superiore può scalare il terzo sup., quarto sup. e così via.
Altre confraternite sono famose per singoli episodi. I Gesuiti importarono dall’India il numero zero e fecero carriera azzerando a più non posso. Il loro fondatore, Sant’Ignazio da Lolotte, pare fosse fortissimo nei diedri. I Domenicani arrampicano solo la domenica ed esercitano quindi la loro pazienza aspettando un tiro libero nella calca del popolino in scarpette affamato e urlante.
Per gli amanti della botanica, risultano imperdibili i giardini Vaticaiani, un’autentica oasi di verde disseminata di aiuole curatissime, sulle quali campeggia l’ammonimento “Vietato Calpestare I Preti”.
Poco prima dell’uscita si nota sulla destra orografica un “pulpito” divenuto famoso per la frase “da che pulpito”. Ogni tanto qualcuno che non ha nient’altro da fare vi sale in cima e proclama l’ennesima “giornata mondiale di qualche cosa”. Tra le più famose, si ricordano la “giornata mondiale delle vesciche”, la “giornata mondiale dell’amicizia tra arrampicatori e mountainbikers”, la “giornata mondiale delle giornate continentali”, la “giornata mondiale della comunicazione tra sordi”, la “giornata mondiale dei pomeriggi senza un cazzo da fare”, la “giornata mondiale degli ossimori”, la “giornata mondiale di cosa c’era prima”, la “giornata mondiale delle isoipse”, la “giornata mondiale dei divieti di svolta a destra”, la “giornata mondiale della pesca a strascico”, la “giornata mondiale dei dopodomani” e così via.
Poiché il numero di giornate mondiali sta per eguagliare il numero dei giorni dell’anno, il Vaticaiano pare intenzionato – anziché a finirla con queste proclamazioni che interessano solo i telegiornali – a rivedere il calendario, portandolo a 730 giorni l’anno circa.
All’uscita si viene salutati dalle Guardie Svizzere, sempre che ce ne sia a tiro qualcuna, perché di solito stanno in giro tutto il santo giorno a spittare le classiche.
L’ufficio oggetti smarriti è spesso intasato da gente che ha perso la fede.
La Scala AllelUIAA
Viene usata dai monotiristi per classificare la difficoltà dei pontificati in ambiente. Entrata in uso fin dai primi Vescovi di Roma, utilizzò per questo i numeri romani. Durante la cattività avignonese fu usata una scala differente, perché i francesi non sopportavano (o non avevano ancora capito) i numeri romani e si inventarono la scala santa francese. L’invenzione, che tale era in quanto di essa come di altre cose non si parla affatto nei sacri testi, fu causa di grosse controversie circa l’equivalenza tra scala santa francese e scala AllelUIAA. Ancora se ne discute e a nulla sono valsi sinodi, concilii nonchè le encicliche De Gradibus Sanctissimis, Gradus non mortuus est, De Gradatione Striscta et Lassa.
I francesi ne hanno approfittato come al solito, imponendo una ulteriore classificazione degli itinerari escursionistici:
E = eretico
EE = molto eretico
EEA = eretico assai, quasi apostata
Quando poi l’itinerarium mentis in deum si fa verticale e si cominciano a mettere le mani sulla roccia oltre che su parti decisamente sconce, i gradi sempre secondo i francesi sono:
PD = poco divino, anzi decisamente secolare
AD = abbastanza divino
D = divino
TD = molto divino, decisamente metafisico
ED = estaticamente divino, qui ci vuole un miracolo
EX = exultate homines atque oculum!, quia cascare possum
ABO =manteniamo l’abolizione dell’ICI sui beni ecclesiastici
Per i cultori della Madonna, rinviamo ad alcune sette scozzesi che classificano gli itinerari con una M seguita dal numero di apparizioni avute durante le loro glaciali ascensioni.
Ed ecco (finalmente) la scala AllelUIAA:
Leone I – papato elementare. Ogni tanto ci si china a raccogliere una pietra per lapidare allegramente qualche eretico o libero pensatore incontrato lungo il sentiero. La sera ci si scalda mandando al rogo qualche strega locale o filosofo rompicoglioni.
Giulio II – per superare qualche asperità si fa ricorso alle mani e talvolta alla spada.
Innocenzo III – il papato si fa verticale e la progressione richiede l’uso delle mani. Gli appoggi sono ancora numerosi e comodi come le schiene dei fedeli.
Clemente IV – Appoggi e appigli diminuiscono. Ci si comincia a preoccupare un po’ anche perché l’Imperatore o il Re di Spagna fanno gli schifiltosi e tardano a mandare quelle cazzo di truppe.
Sisto V – taluni passaggi diventano obbligati. Nasce la tentazione di azzerare, ma Lui ti vede.
Paolo VI – papato di movimento. Occorre andare a cercarsi appigli e appoggi dove ci stanno. Se rimani lì e non vai avanti è inutile che te la prendi con il calo delle vocazioni o qualche raro e isolato caso di preti pedofili.
Gregorio VII – papato difficile, spesso strapiombante. Azzerare è ancora peccato.
Bonifacio VIII – La via è decisamente difficile, si prendono schiaffoni.
Pio IX – Papato ai limiti del possibile, il ricorso alla fede aumenta. E se proprio non si passa, basta gridare al compagno “Non possumus !”.
Pio X – Occorre credere fermamente, senza esitazioni. Se poi ci scappa un miracolo, tanto meglio.
Andate, il libro è finito
di Claudio Cremona anche:
Arrampicare nel Quartiere Salario
Arrampicare nel Quartiere Parioli
ANDE
Arrampicate prese in giro
Ode all’amico Gianni
Collana (Mario) Monti d’Italia (anche in Alpinesketches)
visita il suo sito
http://www.claudiocremona.it/montagna/guide.php
Alpine Sketches © 2012
Ma la letteratura psichedelico-lisergica non si era esaurita con l’inizio degli anni ’70?
Cortesemente, gradirei ricevere indirizzo, disponibilità, costi e quant’altro relativi al suo spacciatore di fiducia: sono invidioso della vena creativa stimolata dalle sue forniture.
Basta una buona enoteca!
Esilarante, Claudio!
Geniale!!!!
ahahha leggo solo ora….ma tu sei un genio!!!!!
L’ha ribloggato su Alpine Sketchese ha commentato:
Per chi ha bazzicato i forum di montagna Claudio Cremona, piú conosciuto con il nickname claudio1949, era una figura molto nota e apprezzata, per il piglio e la simpatia.
Le sue Guide di Arrampicata Sportiva e Alpinismo sono scritti spassosi e rimangono tra le cose più colte e ironiche mai lette riguardo l’alpinismo. Le potete trovare nel suo sito e qualche capitolo anche in Alpine Sketches e nel noto blog di Gogna.
http://www.claudiocremona.it/montagna/guide.php
Anche adesso, che non c’è più, saprà farvi sorridere. Ciao Claudio!